• 23 Dic

    Thomas Merton

    MEMORANDUM
    PER UN RINNOVAMENTO DELLA VITA MONASTICA

    Tratto da Thomas Merton, UN VIVERE ALTERNATIVO – ed. QIQAJON COMUNITA’ DI BOSE
    a cui rimandiamo per l’approfondimento.

    La vocazione monastica è un carisma ascetico, non una chia­mata a un’attività specifica nella chiesa e per la chiesa. Il monaco è chiamato “fuori da questo mondo» per cercare veramente Dio attraverso il silenzio, la preghiera, la solitudine, la rinuncia, la compunzione e la semplicità. Anche nella sua forma cenobiti­ca (che non deve essere considerata l’unica forma) la vita mona­stica mantiene qualcosa dell’atmosfera del deserto, di una vita solo con Dio. L’opera del monaco è cercare Dio sopra ogni cosa e cercare lui solo.

    Nel riformare la vita monastica si dovrebbe prestar attenzio­ne, in primo luogo, a mantenere o ristabilire il carattere specifi­co della vocazione monastica. Non può essere la vita religiosa attiva il punto di riferimento per valutare la vita monastica, e gli ordini monastici non dovrebbero essere equiparati agli altri isti­tuti religiosi, clericali o meno.

    La comunità monastica non esi­ste per la salvaguardia di qualche opera apostolica o educativa, neppure come fine secondario. Le attività del monaco non sono giustificate dalla loro efficacia pratica, ma solo per la loro atti­nenza alla sua vita di solitudine con Dio. Hanno valore nella mi­sura in cui sono consone a una vita fuori da questo mondo, che è nel contempo una vita di compassione per coloro che restano nel mondo e di preghiera per la salvezza del mondo.

    Nell’attuale fase di riflessione generale sull’aggiornamento nel­la chiesa, coloro che hanno un ruolo nel rinnovamento della vita monastica non devono essere sviati da una legittima ammirazione per altri carismi, estranei al monachesimo. Certe innovazio­ni, che pure sono segno di una vita autentica e di un rinnovamento apostolico, da viversi in contatto vitale con il mondo e in solidarietà con lo spirito secolare di quest’epoca, non devono es­sere viste come appropriate alla riforma monastica solo perché utili e buone in se stesse.

    Peraltro, il concetto di “vita contemplativa pura”, specialmen­te in senso giuridico, non necessariamente si addice alla vocazione monastica, nella quale possono e dovrebbero esistere casi, in via eccezionale, di apertura al mondo e di contatti con singoli o gruppi attraverso un apostolato informale e piuttosto personale, mediante l’ospitalità, conferenze per piccoli gruppi o la pa­ternità spirituale. Questi contatti restano però un’eccezione. Nessuna comunità monastica dovrebbe essere obbligata a consi­derarli come normali e ordinari.

    La principale preoccupazione nel riformare il monachesimo dovrebbe essere la chiarificazione dei fondamenti monastici attraverso un ritorno alle fonti, così da poter recuperare autentici­tà e purezza e liberarsi da tutto ciò che vi è estraneo. Ma questo non sarà effettivamente possibile se verranno considerate come normative quelle istituzioni monastiche che sono attive più che dedite a una vita contemplativa. La vita monastica, così com’è vissuta oggi nelle grandi comunità impegnate nell’educazione o in altre opere non è del tutto normale, dal momento che in tali comunità lo spirito di solitudine e la vita di preghiera sono l’ec­cezione più che la regola.

    Una riforma monastica non è pertanto autentica o effettiva se consiste principalmente in certi ritocchi della liturgia e dell’osservanza regolare, con esortazioni a un maggior spirito di pre­ghiera e a una più diligente osservanza del silenzio e della clau­sura. Se la vita entro le mura claustrali è una vita di agitazione e di grande attività, non sarà un mero rafforzamento della disci­plina a renderla più monastica. Nemmeno una maggior enfasi sullo “stile familiare” sortirà l’effetto desiderato, perché può addirittura finire per incrementare lo spirito di attivismo e di effi­cientismo e condurre il monaco sempre più lontano da una vita di silenzio e di preghiera.

    Di conseguenza, quando le strutture monastiche ordinarie tendono, in realtà, a frustrare alcune delle profonde aspirazioni della vocazione monastica, sarebbe un grave errore considerarle come una norma. Questo non significa che tali tipi di strutture co­munitarie non siano realmente degne di ammirazione e non siano utili alla chiesa. Non si tratta di criticarle o di insinuare che non siano comunità ferventi e che non conducano una vita regolare. Bisogna però riconoscere che una genuina riforma monastica va fondata altrove. E’ perciò importante che quando alcuni membri di queste comunità cercano una forma di vita monastica più pura e autentica, in comunità che già esistono, o nella solitudine, o addirittura in comunità da fondare, non ne siano impediti solo per­ché le loro aspirazioni non sembrano accordarsi con quanto è con­siderato “normale” nelle grandi e consuete strutture monastiche dei nostri giorni. Il fatto che una nuova proposta di vita monasti­ca non si adatti al modello che è normalmente seguito in numero­si monasteri, fiorenti e ben stabilizzati, non significa che sia peri­colosa o indesiderabile. La norma va cercata nell’autentica tradi­zione monastica, adattata alle particolari necessità del nostro tempo. Una certa percentuale di “rischio” va sempre messa in conto quando si scommette su qualche forma sperimentale.

    I superiori dei monasteri dovrebbero essere solleciti nel rico­noscere e nell’incoraggiare nei loro monaci ogni desiderio innovativo e genuino per una più profonda vita di preghiera e per un ritorno a più pure forme monastiche. L’abate è un padre spiri­tuale e non soltanto un amministratore. Non è semplicemente il capo di un’organizzazione che ha la responsabilità di far lavora­re gli uomini per gli obiettivi della comunità. Egli è responsabile davanti a Dio della crescita e della reale santificazione dei suoi monaci. Quando, perciò, costoro credono di dover ricercare una vita di preghiera più pura, più solitaria e più fervente, non si do­vrebbe impedire loro di sperimentarne la reale possibilità. Non dovrebbero essere scoraggiati nel loro tentativo, e ancor meno ridicolizzati, ma piuttosto aiutati in vari modi a verificare le pro­prie capacità e la fondatezza della loro autentica vocazione. For­se uno può condurre una vita di preghiera più pura e più intensa nell’ambito di una comunità numerosa di tipo tradizionale. A un altro si può concedere di vivere separato dalla comunità in modo temporaneo o permanente, in obbedienza al suo abate. Altri possono aver bisogno di trasferirsi in nuove comunità o an­che avere il permesso di vivere soli come eremiti. Tutte queste possibilità dovrebbero essere riconosciute come legittime e praticabili. In questo modo, a nessuno sarebbe impedito di speri­mentare un’aspirazione presumibilmente seria. Il fatto che altri possano esserne “influenzati” non costituisce “scandalo”. Può essere, semmai, di edificazione.

    Il fatto di vivere separato dal mondo quale uomo di Dio con­sente al monaco un’esperienza e un’ autorevolezza particolari nelle cose spirituali, a condizione però che tenga realmente fede alla sua vocazione. Perciò un apostolato monastico – che ha un carattere suo proprio – non si giustificherà se riproduce unica­mente, in ogni aspetto, l’attività degli ordini dediti alla predicazione o del clero secolare. Un monaco invischiato nelle tensioni organizzative di una normale e ininterrotta vita attiva non può vivere in verità il suo essere monaco, e il suo apostolato, per quanto utile possa essere, perde il suo carattere specifico. Un ve­ro apostolato monastico dovrebbe perciò sempre essere “occa­sionale” nel suo genere e non soggetto a eccessive pressioni o a costanti, ininterrotte richieste. Dovrebbe sempre essere il tra­boccare di una profonda vita di silenzio e di preghiera.

    Il mona­co non ha l’obbligo di condividere direttamente con gli altri, at­traverso la parola o l’azione, i “frutti della contemplazione”. Se pertanto egli abbandona la propria solitudine senza ragione, al fine di assumersi un’attività, non può contare sulle grazie parti­colari che sostengono altri, ufficialmente impegnati in opere di apostolato. D’altro canto, se il monaco, in modo diretto o indi­retto (per esempio, attraverso gli scritti), è in grado di raggiun­gere le anime, il suo apostolato sarà efficace nella misura in cui sgorga in modo spontaneo e manifesto dalla sua vita monastica.

    Che il singolo monaco raggiunga “il mondo” o meno, il mona­stero stesso può sempre offrire agli uomini un luogo di medita­zione nella pace, dove possono cercare una direzione spirituale e ore di preghiera nella quiete, beneficiando dell’ospitalità, tradi­zionale obbligo della vita monastica.

    La stessa formazione dovrebbe essere in funzione della vita monastica e non seguire semplicemente le norme tracciate per gli ordini religiosi di vita attiva e per i seminari. Il periodo di noviziato dovrebbe essere più lungo che non in altri ordini, e dopo il noviziato la formazione dovrebbe proseguire con studi di sacra Scrittura, liturgia, ascetica, patristica e altri temi attinenti alla vita monastica, In caso di ammissione al presbiterato (cosa tradizionalmente considerata eccezionale per un monaco), il pia­no di studi dovrebbe rispondere alle necessità della vita mona­stica e non si dovrebbe obbligare il monaco a seguire per intero quello del seminario, pensato per i presbiteri impegnati nella vi­ta attiva.

    La vita monastica è una vita di amore per Dio e per l’uomo. L’aspetto sociale della vita monastica è perciò molto importante, ma non va sopravvalutato a detrimento dello spirito di pre­ghiera e di solitudine. L’apostolato del monaco non deve necessariamente essere confinato alla preghiera e all’intercessione, ma se nella sua attività il monaco imita semplicemente quanto può essere fatto, in modo migliore, da altri ordini o dal clero secolare, il suo apostolato perde il suo significato e la sua ragion d’essere.

    Vi è d’altronde urgente bisogno di un vero apostolato mona­stico all’interno del monachesimo stesso. Ad esempio, i ritiri e le conferenze nei monasteri dovrebbero essere tenuti da monaci profondamente permeati dello spirito della tradizione monastica piuttosto che da membri di ordini attivi, i quali non sono a co­noscenza dei particolari problemi e bisogni della vita monastica.

    Posted by attilio @ 19:00

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