• 30 Mag

    L’amore verso i nemici
    Mt 5,43-48

     

    a cura di p. Attilio Franco Fabris

    «Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».

    L’aspetto più caratteristico dell’insegnamento di Gesù è l’amore verso i nemici.

    Se per altri insegnamenti è facile ritrovare testi corrispettivi nell’antico testamento, constatiamo che questo non ne trova.

    Troviamo al contrario sancita chiaramente la comune “legge del taglione”: “Occhio per occhio, dente per dente” (Es 21,24).

    L’insegnamento di Gesù è sublime, ma quanto difficile ed oscurato nella nostra realizzazione. Già un’omelia del II secolo riporta: Quando i pagani ci sentono dire “amate i vostri nemici” si riempiono di ammirazione. Ma poi quando vedono che non sappiamo amare neppure coloro che ci vogliono bene, ridono di noi.

    Erasmo di Rotterdam diceva: Nel combattere contro i malfattori ci comportiamo da malfattori anche noi, e lottiamo contro i turchi come se lo fossimo anche noi.

    Dove trova anzitutto radice l’insegnamento di Gesù? Certamente nella perfezione del Padre: Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Io invece vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi.

    Qualora infatti amaste solo quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno lo stesso anche i pubblicani? (Mt 5,43-46)

    Il Dio della rivelazione fatta da Gesù è un Padre che sa soltanto amare, non come il Dio della filosofia e della religione naturale sempre pronto a fare giustizia intesa umanamente.

    Se il Padre ci ama, non è perché noi siamo buoni, ma perché lo è lui. Non può comportarsi diversamente.

    Il sole scalda sempre, anche se di fronte al calore del sole, la materia reagisce in maniera diversa: la cera si ammorbidisce, il fango s’indurisce. Ma il sole non sa fare altro che scaldare. Dio è amore (Gv 4,8).

    La prova che Dio ci ama è che Cristo è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori” (Rm 5,8).

    Per il Padre che è nei cieli, tutti sono figli, nessuno escluso. Il suo cuore non soffre tanto per l’offesa quanto per il figlio che ha deciso di abbandonarlo.

    Per amare i propri nemici è necessario che prima entri, mi compenetri, del cuore misericordioso del Padre.

    Quanto spesso invece il nostro cuore è solo pronto al giudizio e alla condanna definitiva dell’altro. Nel nostro cuore condanniamo spesso l’altro all’ergastolo del nostro giudizio.

    Se Dio agisse così chi si salverebbe?

    Sempre Giovanni Crisostomo ci riporta un dialogo: “”Tizio non è disposto a correggersi, non ammette consigli”. “E come lo sai? Lo hai consigliato? Ti sei dato da fare per correggerlo?”. “Sì – mi risponde – ci ho provato parecchie volte”. “Quante volte?”. “Molte; una volta e…un’altra volta ancora…”. “Bravo! E questo lo chiami molte volte? Anche se lo avessi fatto per tutta la tua vita, non dovresti stancarti, né desistere. Non vedi come Dio ci esorta continuamente per mezzo dei profeti, degli apostoli, degli evangelisti? E cosa succede? Forse che noi ci comportiamo bene o agiamo in tutto secondo tali esortazioni? Assolutamente no! Eppure Dio non ha smesso di correggerci, non ha taciuto, non ha cessato di fare nuovi tentativi…”.

    Giudicare è un errore col quale giudico e condanno me stesso. Perché l’implacabile giudizio che emetto su di una persona di cui ignoro la storia intima, le difficoltà, le lotte e il peso atavico che si trascina dietro quel giudizio, mediante il quale immobilizzo e pietrifico tutto ciò che ancora è in gestazione, in realtà non fa che mettere in evidenza la durezza del mio cuore, la mia incapacità di comprendere ciò che è la creazione, la mia mancanza di tenerezza e di compassione, verso un’umanità incompiuta, ancora in embrione, che cammina a tentoni e impara ad esistere con enorme lentezza” (Lopez Melùs).

    Bernard Shaw soleva dire ironicamente: L’unico uomo intelligente è il mio sarto: mi prende di nuovo le misure ogni volta che vado a trovarlo.

    Il grande testimone della non violenza il Mahatma Gandhi testimonia: Ho creduto sempre alla lealtà dei nemici. Ho tanto creduto nella lealtà che, alla fine, l’ho trovata. Sì, approfittarono del mio carattere per ingannarmi. M’ingannarono undici volte di seguito e io, con stupida ostinazione, tornai a credere nella loro lealtà. Finché, alla dodicesima volta, non poterono fare a meno di essere leali. La scoperta della propria lealtà fu per loro e anche per me una felice sorpresa”.

    Non è questo mettere in pratica l’insegnamento dell’apostolo: L’amore è comprensivo; è disposto a discolpare senza limiti, a credere senza limiti, a sperare senza limiti (1Cor 13,7).

    Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; così facendo, accumulerai la brace sulla sua testa (Rm 12,20). Queste parole indicano chiaramente che l’unica vendetta consentita al cristiano è quella di fare il bene.

    Non irritare di più colui che è già irritato (Sir 4,2). Non rispondere alla violenza con la violenza “perché il fuoco non può essere spento col fuoco, bensì con l’acqua” (s. Giovanni Crisostomo). Siate pazienti con tutti e fate il possibile affinché non si renda male per male; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti (1Ts 5,15).

    E’ con la forza della non-violenza, della mitezza, che si riesce a vincere in profondità la violenza dell’altro. Egli non abbandonerà l’aggressività se io gli restituisco lo schiaffo, ma lo farà, se io gli porgo l’altra guancia (cfr. Mt 5,39). La non-violenza è un atto di estremo coraggio e di forza. Il cedere alla violenza rispondendo con altra violenza è essere vinti, è debolezza: è aggiungere un anello alla catena interminabile del male.

    La gioia di non aver causato alcun male al fratello è superiore alla gioia di una qualsiasi rivincita (C. Carretto).

    La vittoria su se stessi è la più difficile di tutte.

    Una piccola storia: un re aveva tre figli e, tra le tante ricchezze, possedeva un diamante di inestimabile valore. Il padre promise che lo avrebbe dato a colui che fosse stato capace di compiere la più grande impresa. Il maggiore uccise un drago. Il secondo, da solo e servendosi di un pugnale, riuscì ad uccidere dieci uomini in battaglia. Il terzo incontro il suo peggiore nemico profondamente addormentato sul ciglio di un’alta scogliera e lasciò che continuasse a dormire. E’ inutile dire che il diamante venne assegnato proprio a lui.

    Una componente del nostro amore per i nemici è la nostra preghiera per loro: Pregate per i vostri persecutori (Mt 5,44); “Benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano” (Lc 6,28).

    Chiederemo per noi la forza di vincere col bene il male, come anche che lo stesso nemico si penta smettendo di fare il male.

    Numerosi sono i casi, nell’Arcipelago Gulag, riferiti da Solzenicyn di questa testimonianza umile luminosa che talvolta finisce col toccare il cuore dei torturatori. Eugenia Ginzburg, nel “Viaggio nella vertigine”, ricorda quelle donne del popolo di un campo del Nord che, prigioniere per la loro fede, si rifiutavano di lavorare la domenica di pasqua, pur impegnandosi a recuperare il tempo perduto nei giorni seguenti. Condannate a restare in piedi, scalze nel fango gelato, si accontentarono di rispondere cantando degli inni di risurrezione. “Soffro e muoio per mano tua, ma lo faccio perché tu sia salvato”, diceva una di queste martiri. Una preghiera che circolava negli ambienti cristiani russi agli inizi degli anni sessanta invocava la misericordia di Dio sulle vittime e sui carnefici. Solo così, diceva questo testo, si sarebbe potuto “consolare il Consolatore””(O. Clement, La rivolta dello Spirito, p. 90-1).

    Una preghiera dunque che non ha uno sfondo egoistico, ovvero non fatta perché io possa vivermene in pace ed indisturbato, ma perché tutti possiamo essere salvati dal peccato e raggiungere il regno.

    Scrive sant’Agostino: Un artigiano vede nel bosco un tronco di rovere ed è interessato ad esso non perché desidera che rimanga per sempre così com’è, ma per l’opera d’arte che ne può venir fuori. Ama ciò che il tronco può diventare… Così, anche tu, quando il nemico ti si  oppone, si adira contro di te, ti insulta, ti molesta, ti oltraggia e i perseguita con odio, tu vedi ciò che egli è. Ma tu, cosa dici nel tuo intimo? Signore, sii benevole con lui, perdona i suoi peccati, infondi nel suo cuore il tuo timore, cambialo. Tu non ami il nemico che c’è in lui, ma il fratello che vuoi che egli sia. Dunque, quando ami il nemico, ami il fratello.

    E se non cambia? Non desistere, stai facendo in modo che Dio stesso sia il tuo debitore. Non domandarti se l’altro è degno o no del tuo amore, ma chiediti, invece se tu come discepolo del Signore non debba amarlo: Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se fate del bene a coloro che i fanno del bene, che merito ne avrete? (Lc 6,32-33).

    La parola grazia esprime il concetto di gratuità, un sentimento che ci strappa dalla sfera della compravendita, del do ut des, per introdurci nella sfera dell’amore incondizionato del Padre, di Colui che non ama gli altri perché sono buoni, ma perché lui è buono per se stesso.

    E. Freud diceva: Quando mi chiedo perché ho sempre agito onestamente, disposto a perdonare gli altri e a mostrarmi gentile ogni qual volta che mi è stato possibile, e perché ho continuato sempre a comportarmi così, pur rendendomi conto che così facendo potevo recare danno a me stesso, esponendomi ai colpi degli altri, dato che esistono uomini brutali e indegni, veramente non trovo una risposta.

    Non è forse questo un influsso della grazia, una nostalgia del nostro essere fatti ad immagine e somiglianza del Creatore?

    Fratel R. Schtutz afferma: Perdonare significa rinunciare a capire ciò che l’altro farà del tuo perdono… Non bisogna perdonare affinché l’altro cambi col nostro perdono. Questo è un calcolo miserabile che non ha niente a che fare con la natura gratuita dell’amore. Si perdona soltanto per seguire le orme di Gesù Cristo. Per poter essere perfetti come è perfetto il Padre nostro che sta nei cieli.

    SCHEDA DI LAVORO

    1. Leggo e medito Mt 5, 43-48.
    1. La mia verifica sulla pratica del comandamento della carità trova il suo punto di riferimento nella perfezione d’amore del Padre? Oppure si ferma a confini posti da me stesso?  Quanti escludo dal mio amore? In che modo?
    1. Il mio impegno nel perdonare il nemico      come si concretizza nella mia vita cristiana? Pongo dei gesti concreti? Mi sforzo di pregare per i miei nemici?

     

    Posted by attilio @ 09:27

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