• 16 Mag

    Un Dio per disperare?
    Geremia 15,10-21


    di p. Attilio Franco Fabris

     

    I versetti citati vengono per lo più spostati cronologicamente al tempo di Ioiakim (608-598) perché proprio sotto questo re Geremia ebbe molto da soffrire.  Ma quella datazione è tutt’altro che sicura; il brano potrebbe stare altrettanto bene al tempo di Sedecia (597-586).

    I vv. 13 e 14 sono stati inseriti in questa pagina più tardi.

    Il contenuto è un confronto personale tra Geremia messo alla prova e il suo Dio.

    Dal punto di vista terminologico, la presente Confessio è imparentata con le lamentazioni veterotestamentarie.

    La caratteristica linguistica induce a pensare che Geremia si lamenti di Jahvè con Jahvè stesso, e anzi in ultima analisi lo metta sotto accusa.

    L’insuccesso di Geremia

    Nell’esercizio del suo ministero profetico, nella sua predicazione di profeta, Geremia è diventato «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese» (v. 10).  La sua critica al comportamento asociale dei ricchi, all’ottusità del popolo, la sua critica al tempio e al culto, ai sacerdoti e ai profeti di salvezza, la sua critica al re, gli hanno tirato addosso l’ostilità di tutti.

    Tuttavia egli non ha nutrito sentimenti cattivi nei confronti dei suoi nemici.

    “Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio, non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico, nel tempo della sventura e nel tempo dell’angoscia? (v. 11).

    Eppure la predicazione profetica lo ha gettato nella solitudine.  Chi infatti sarebbe disposto a coltivare l’amicizia con un profeta che non ha altro da annunciare se non: per voi non c’è salvezza?

    Come sarebbe stato volentieri una persona normale, come tutte le altre!  Ma questa possibilità gli era negata.

    Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate dei buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno” (v. 17).

    L’emarginazione dalla società come conseguenza del suo insuccesso professionale, profetico, spinge Geremia ad esclamare: «Me infelice, madre mia, che mi hai partorito» (v. 10).

    Ma non è soltanto il fallimento esterno che lo spinge a questa confessione.  Bisogna prendere in considerazione un punto ancor più essenziale.

    L’inattendibilità di jahve

    Geremia ha affrontato e percorso la stoltezza dell’esistenza profetica. «Mi hai sedotto, Signore, e io stolto mi sono lasciato sedurre» (Ger. 20,7).

    La forza di questa espressione acquista tutto il suo rilievo soltanto se si avverte che il verbo ebraico qui adottato ptb è la formula specifica per indicare la seduzione di una ragazza.  Geremia viene allora a dire: Dio, tu hai approfittato della mia buona fede, della mia fiducia, della mia disponibilità, del mio affetto e amore.  Sono stato stolto a fidarmi di te.

    Nel racconto della vocazione di Geremia (Ger. 1), in cui egli avanza delle obiezioni contro la sua vocazione, preoccupazioni e obiezioni di Geremia vengono respinte da Jahvè con queste parole:

    1,8 Non temerle, perché io sono con te per proteggerti.

    E in 1,17-19 la promessa viene continuata:

    «Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti, alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro. Ed ecco oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti muoveranno guerra ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».

    Geremia aveva prestato fede a questa promessa.

    Ma ora egli ha fatto l’esperienza che Dio non è di parola.

    Se richiamiamo il significato del verbo    già ricordato pth («sedurre»), possiamo tradurre a         un dipresso così l’esperienza di Geremia: « … tu hai approfittato della mia ingenuità … mi hai fatto tutte le promesse possibili, e io sono stato così sciocco da abbandonarmi a te…, tu mi hai piantato nella mia vergogna».

    Così egli comincia a dubitare, a disperare. Questo è il dolore continuo, la ferita inguaribile di cui egli soffre e di cui parla in 15,18a:

    “Perché il mio dolore è senza fine

    e la mia piaga incurabile non vuol guarire?”

    Se Geremia terminasse il suo lamento con il v. 18a, allora – secondo la struttura delle lamentazioni cultuali d’Israele – ci sarebbe ancora per lui speranza, allora forse la sua delusione non sarebbe ancora definitiva.  Infatti l’interrogativo – «perché?» – nelle lamentazioni punta a una risposta di Dio, risposta di consolazione e di liberazione, alla assicurazione che le sofferenze finiranno presto o anche subito.  Nelle lamentazioni la domanda del «perché» è un grido fiducioso a Jahvè, affinché operi un cambiamento e torni a guardare con bontà l’orante.

    Ma in base alla propria esperienza Geremia è evidentemente ormai incapace di piegarsi alle movenze della lamentazione; egli le oltrepassa e sfocia nell’accusa, ed esprime così di non riuscire più a sperare.

    Tu sei diventato per me un torrente infido,

    dalle acque incostanti (18 b).

    Che cosa significhi un torrente infido lo descrive Giobbe 6,15-20.  Al tempo delle piogge invernali anch’essi sono colmi d’acque, ma nei periodi di secca inaridiscono.  Chi s’abbandona a loro nei tempi di siccità, finisce male. Chi si fida dei torrenti infidi perisce.

    Quando Geremia rimprovera a Jahvè di essere per lui come un torrente infido, si deve richiamare anche Ger. 2,13.  Qui il profeta rimprovera il popolo in nome di Dio:

    Perché il mio popolo ha commesso due iniquità:

    essi hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva,

    per scavarsi cisterne, cisterne screpolate, che non tengono l’acqua.

    Le cisterne screpolate sono gli dèi a cui Israele si è affidato.  Non servono a nulla, non ci si può fidare.  Orbene questa stessa denuncia Geremia la fa ora (15, 18) anche nei riguardi di Jahvè.  Implicitamente il profeta colloca Jahvè sul banco delle divinità, da cui egli peraltro non si aspetta nulla.

    Certo, egli non esplicita quest’idea; ma il suo confronto con il torrente infido non lascia altra conclusione.

    La lamentazione trasformatasi in accusa raggiunge qui indubbiamente il suo punto più alto; tanto più che, nell’Antico Testamento, si può mettere in dubbio tutto ma non il dogma della fedeltà e credibilità di Jahvè e della sua superiorità sugli dèi.

    Quando Geremia ha accettato il suo incarico, se poteva contare su qualcosa, era la fedeltà di Jahvè, che per l’israelita rappresentava il punto assolutamente sicuro.  Quella fedeltà è la base autentica dell’esistenza profetica.  Ma ora egli deve costatare che Jahvè non è fedele, che la sua parola non è credibile.  Ne rimane sconvolto.

    Come può infatti un profeta essere ancora profeta se sperimenta che la parola di Dio non è credibile? Qui è intaccata la radice del profetismo, di ogni fiducia, di ogni fede  personale.  Forse Geremia sarebbe riuscito a reggere, più o meno volentieri il suo pesante destino di profeta e la solitudine umana, se in base alla sua esperienza personale non gli fosse diventata problematica la fedeltà di Jahvè e non avesse invece conosciuto la sua apparente inattendibilità.

    Presupposti teologici

    Per poter comprendere la situazione disperata di Geremia, bisogna avere ancora presenti due presupposti teologici.

    Al tempo di Geremia, la fede dell’Antico Testamento non conosce ancora una vita di segno positivo dopo la morte.

    Se dunque ora il profeta viene ingannato da Dio, quest’inganno coinvolge la vita e il suo senso perché, se questo senso fallisce ora, fallisce per sempre.

    Attorno al 600 a.C., lo Sheol è il luogo dei morti, la patria del silenzio.  L’uomo è in cammino verso lo Sheol; ma qui non c’è più né azione né pensiero né conoscenza né saggezza (Eccl. 9,10).  Non c’è neppure sofferenza e tormento.  Ombra, silenzio, inghiottimento nel nulla: né attività positiva né passività negativa: ecco lo Sheol.  Un infinito ammutolire e spegnersi.

    Se non si può sperare in un’esistenza positiva e piena di senso dopo la morte, diventa naturalmente anche più pesante aver a che fare con un Dio che tace in questa vita.  E nella situazione descritta al cap. 15 Geremia fa chiaramente l’esperienza di un Dio silenzioso, al punto che egli deve chiedersi se le parole pronunciate in passato da Dio, con cui questi gli si era manifestato, non fossero pura fantasia invece che realtà divina.

    In qualità di cristiani – dopo che in Gesù è apparsa la parola decisiva di Dio – ci è più facile accettare il silenzio di Dio, anche se ne soffriamo.  Come possibilità di accettare questo silenzio, rimeditiamo alcune espressioni di Karl Rahner in Tu sei il silenzio: «Perché dunque tu taci?… Se tu taci, non è questo un segno che tu non mi ascolti?  Oppure tu ascolti attentamente la mia parola, forse tu ascolti a lungo la mia vita, fino a che io mi sia detto tutt’intero a te, ti abbia dispiegata tutta la mia vita?  Tu taci proprio perché ascolti spiando silenziosamente finché io non sia davvero compiuto, al termine, per dirmi allora la tua parola, la parola della tua eternità, per mettere allora fine una buona volta al monologo di un pover’uomo, questo monologo che dura tutta una vita nella pesante oscurità di questo mondo, mettervi fine con la parola illuminante della vita eterna, in cui tu stesso ti dirai a me dentro il mio cuore?».

    Ma per Geremia la possibilità di vita eterna a cui si richiama Rahner non esiste ancora. E neppure gli passa per la mente che il silenzio divino è la garanzia della libertà umana. Inoltre, egli ha non solo ascoltato qualcosa di Dio; ha ascoltato – in qualche modo Dio stesso. Almeno, così ha pensato finora.  Come potrà allora predicare la parola se non gli viene più pronunciata?  Se Dio tace, Geremia non può più essere profeta.

    La seconda cosa che va tenuta presente è che Geremia non vede ancora nella sofferenza dell’innocente una possibilità ricca di senso da parte di Dio.  E Geremia si considera uno che soffre da innocente; non per nulla egli sottolinea: «Forse, Signore, non ti ho servito del mio meglio, non mi sono rivolto a te con preghiere per il mio nemico, nel tempo della sventura e nel tempo dell’angoscia?» (v. 11).

    Ciò che la Passione di Gesù ci ha reso quasi troppo familiare, la sofferenza vicaria per la salvezza dei peccatori, ciò che si trova già con piena maturità teologica nel quarto canto del Servo di Dio, non è ancora chiaro per Geremia, e quindi neppure affermabile, sebbene un tempo breve lo separi dal Deuteroisaia, l’autore del canto del Servo, e sebbene più di una volta si possa avere l’impressione che egli partecipi già alla sofferenza vicaria del Servo (cfr.  Ger. 11,19; 10,19 s.; 14,17.19, in questi testi il profeta non piange la propria miseria ma quella del popolo, che è come diventata sua; egli soffre già quello di cui gli altri non hanno ancora coscienza).

    L’alternativa di Geremia

    Nella confessio di Geremia si può anche riconoscere soltanto lamentazione e accusa.

    Ma l’accusa diventa comprensibile soltanto se si è prima riconosciuta l’alternativa del profeta, quella che egli pone al suo Dio, cioè alla sua idea di Dio alla sua immagine di Dio.

    Se questa alternativa sia stata del tutto chiara a Geremia stesso, è un altro paio di maniche.  Di fatto egli la offre.  Ed essa soltanto riesce a spiegare il suo dubbio nella fedeltà di Dio, la sua disperazione.

    «Tu lo sai, Signore,

    ricordati di me e aiutami, vendicati per me dei miei persecutori.

    Nella tua clemenza non lasciarmi perire,

    sappi che io sopporto insulti per te» (15, 15).

    In queste frasi Geremia chiede al suo Dio un intervento decisivo, e proprio in questo modo gli pone un’alternativa. O Jahvè si riconosce nel suo profeta, o con la sua clemenza finisce per mettersi dalla parte dei nemici di Geremia e per lasciarlo perire.  Nella prospettiva di Geremia, Jahvè deve intervenire in favore del profeta, poiché la rovina di questi dimostrerebbe che le sue parole non erano messaggio di Jahvè.

    Geremia è molto abile nell’evidenziare che nel suo destino è in gioco in ultima analisi la causa stessa di Jahvè; perciò egli può anche dire: «Vendicati per me dei miei persecutori».  Geremia non vede che un’alternativa: io o i nemici.  Non vede altra possibilità, e quindi assolutizza la propria alternativa come l’unica possibile.  Ma in questo modo egli limita le possibilità di Dio a quelle che sono da lui contemplabili e comprensibili.

    Ma dato che Jahvè non interviene contro i nemici del profeta, Geremia – nel senso della sua alternativa – si vede oramai in balia della rovina definitiva.  Dio non si riconosce in lui, non si riconosce dunque nel suo messaggio Egli non comprende più il suo Dio.  Perciò egli dispera della sua esistenza profetica e del suo Dio, a cui non può non negare allora l’attendibilità, la fedeltà alla sua stessa parola.

    Questo Dio, della cui esistenza il profeta non dubita, non corrisponde più all’immagine di Dio che Geremia si era fatta in base alla teologia tradizionale veterotestamentaria e alla propria esperienza personale.  Dio gli è diventato estraneo.  Egli si trova in presenza di uno sconosciuto, di cui non si può più fidare.

    Geremia non è (ancora) disposto ad abbandonarsi a questa nuova realtà divina, egli si attiene a quanto gli è stato tramandato e a quanto ha finora sperimentato.  Anch’egli ha le sue idee su com’è il Dio d’Israele e su come, di conseguenza, Jahvè come Dio deve essere e comportarsi.  Perciò può esigere come alternativa che non esageri in pazienza ma si decida finalmente a prendere pubblicamente posizione a fianco del profeta. Se Dio non fa così, sulla base di quanto è accaduto finora non resta che accusarlo di infedeltà.

    Che Dio è se non mantiene la sua parola così come ci si aspetta da lui?

    La risposta di Jahvè

    Tutto quanto abbiamo finora ripetutamente incontrato viene confermato e approfondito nella risposta di Jahvè.  Il fatto che questa risposta venga data significa che Geremia non è più capace di uscire dal suo vicolo cieco.  Non vede più via d’uscita dalla situazione vissuta della sua esistenza; Dio – e con lui ogni cosa – gli è diventato problematico.  Al tempo stesso, la risposta mette in luce che Dio non ha ricusato il suo profeta, non si è ritirato da lui.  Lamentazione e accusa non sono cadute nel vuoto; Jahvè lo ha ascoltato, era quindi vicino a lui, anche quando Geremia non riusciva più a crederlo perché si era immaginata in modo diverso la promessa «presenza» di Dio.

    Dobbiamo pensare che Geremia abbia creduto di sperimentare l’inattendibilità di Dio soprattutto nel fatto che la promessa legata alla sua vocazione «Non temerli, perché io sono con te per proteggerti» (1,8. 19) non era stata mantenuta.  Egli non poteva infatti accordare la sua situazione, quale la presenta al cap. 15, con questa promessa; l’una divergeva dall’altra.  Ma la risposta di Dio gli dice: la sua solitudine, il suo insuccesso e il silenzio divino non comportano senz’altro una separazione e un’infedeltà di JahvèDio era ed è vicino al suo profeta, ne conosce il destino, sta al suo fianco – ma in maniera diversa da come Geremia se l’aspettava.  Dio non è diverso soltanto nel suo essere, ma anche nel suo agire, nel modo in cui realizza la parola data.

    In che maniera sia giunta a Geremia la risposta di Jahvè non possiamo saperlo.  Dio ha parlato esplicitamente al suo profeta? O si è trattato di una conoscenza interiore fondata su un’ispirazione divina?  Non è possibile risolvere questi problemi.  Soltanto un punto si presenta verosimile: non può trattarsi di una riflessione puramente umana, in cui la ragione riacquisti il controllo sul dolore e sulla delusione.  La cosiddetta formula di messaggio «oracolo di Jahvè» induce a pensare a un’ispirazione, comunque modulata.

    Ha risposto allora il Signore:

    «Se tu ritornerai a me, io ti riprenderò

    e starai alla mia presenza; se saprai distinguere ciò che è prezioso da ciò che è vile,

    sarai come la mia bocca.

    Essi torneranno a te,

    mentre tu non dovrai tornare a loro» (15,19).

    Geremia ha parlato di Dio con leggerezza, proprio perché lo ha giudicato in base a presupposti puramente umani, perché implicitamente ha prescritto a Dio come egli deve agire, come deve essere Dio, perché ha assolutizzato il proprio pensiero umano.

    In questo modo Geremia può ben essere un uomo che contende con il suo Dio, che perde la fiducia in lui, ma non può più così essere profeta, essere la bocca di Dio.  Perciò egli deve convertirsi.

    Convertirsi significa sempre nel messaggio di Geremia: indirizzarsi con tutta la propria esistenza a Jahvè e prenderlo seriamente nella sua qualifica divina.  Se ora è Geremia stesso che deve convertirsi, ciò significa per il profeta: dimenticare se stesso, non pensare a ciò che nei versi precedenti egli ha esposto con parole appassionate.

    Ma se Geremia deve trasformare il proprio modo di pensare, se deve abbandonare i pensieri che ha prima espressi, ciò significa al tempo stesso che quando si pensa Dio e l’uomo non si può pretendere di misurare e giudicare con un modello di pensiero bell’e fatto l’azione di Dio sull’uomo, sul profeta come sui suoi nemici.  E perciò non si può neanche pretendere di presentare a Jahvè un’altemativa più o meno rigida, come ha fatto Geremia, perché quest’alternativa scaturisce dall’interesse personale, e non rende quindi giustizia alla realtà divina.

    Ma allora l’invito alla conversione significa anche prendere sul serio il fatto che Dio non solo non è affatto un nostro conoscente ma è anzi essenzialmente un estraneo. che può fare questo e quello, da cui ci si deve veramente aspettare questa e quella sorpresa.

    Nella evoluzione dell’Antico Testamento c’è voluto molto tempo prima che la percezione e il riconoscimento dell’estraneità di Dio riuscissero a esprimersi in formule chiare, indipendenti dall’esperienza dei singoli. L’idea si trova poi sviluppata nel Deuteroisaia dei tempi dell’esilio. «Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie – oracolo del Signore.  Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre, i miei pensieri sovrastano i vostri» (Is. 55,8 S.).

    Geremia deve convertirsi, deve rovesciare il proprio pensiero, secondo cui soltanto le possibilità e le alternative umane sarebbero le possibilità di Dio.  In fondo, ritroviamo qui la stessa posizione che in Giobbe: costui deve troncare la sua disputa pro e contro Dio nel momento in cui viene messo a confronto con il pensiero e l’azione di Dio, che trascendono le possibilità di Giobbe.

    Un insegnamento anche per noi

    Se da tutte queste riflessioni si vuol trarre un guadagno teologico – forse anche di significato generale – si impone anzitutto la constatazione quasi banale: Dio è diverso da come noi uomini lo pensiamo.

    Non si tratta soltanto di ammettere che gli uomini possono sbagliarsi nelle loro affermazioni su Dio.

    Si tratta piuttosto di avvertire che Dio è diverso da come la persona teologicamente formata e da come l’uomo carismaticamente dotato pensa il suo Dio. Perché Geremia non è un uomo della strada; proviene da una famiglia sacerdotale, è stato educato secondo le tradizioni teologiche d’Israele, sa pure che cosa bisogna pensare e credere di Jahvè, e che cosa bisogna fare.  E proprio a lui è capitato di smerciare idee sue come realtà divine, mentalità umana come prospettiva ultima, di parlare di Dio con leggerezza.

    Orbene, che le persone ufficiali si possano sbagliare nelle «cose» attinenti a Dio e alla sua volontà, è un fatto che oggi non sorprende più un certo gruppo di persone impegnate.

    Ma può essere sorprendente per loro che Geremia non possa essere annoverato appunto tra i cosiddetti conservatori di Israele, tra quei credenti ortodossi che nella loro fede difendono le proprie posizioni.  Geremia appartiene invece ai critici più accaniti del sistema.

    Egli attacca teologia e prassi cultuali; attacca le istituzioni religiose, smaschera come menzogna la fede nel tempio, consacrata dalla tradizione, rinfaccia i loro difetti ai padroni dell’altare e del trono che – quasi per assicurarsi il favore divino – hanno alle spalle la garanzia dei teologi.

    Ma anche Geremia può sbagliarsi nel suo pensare e parlare di Dio, anch’egli può parlare con leggerezza del suo Dio.

    Davanti al Dio che compare in Ger. 15 non c’è che l’atteggiamento della totale apertura, non ci si può trincerare dietro posizioni ufficiali, scientifiche, umane, se si vuol incontrare lui e non unicamente se stessi nel proprio pensiero.

    L’uomo deve tenersi aperto per la realtà di Dio, che nella sua attività, e specificamente nella sua azione sull’uomo, si fa strada e si manifesta.  L’uomo deve aprirsi a questa realtà, deve mettersi a disposizione di Dio, anche se non riesce a penetrare i suoi pensieri.  Infatti non è determinante riuscire a penetrare e ad esprimere esperienze adeguate.  Determinante è soltanto la fiducia nell’abbandonarsi tra le mani di questo Dio divino, non umano.  Determinante è che la propria realtà, la propria umanità – anche se passata attraverso il crogiolo della sofferenza e quindi in apparenza legittimata – non venga contrabbandata come realtà divina; qui infatti è il tentativo più o meno consapevole di circoscrivere le possibilità di Dio a possibilità umanamente pensabili e rappresentabili.

    Le nostre conclusioni potrebbero suscitare l’impressione che si abbia a che fare con una problematico puramente teologica.  Non è così; lo dimostra l’espressione corrente in tutti gli strati sociali: «Se c’è un Dio, non può permettere questo o quest’altro».  Espressioni come queste possono scaturire da una profonda sofferenza umana ed essere quindi fin troppo, comprensibili; e tuttavia esse nascondono un modo di pensare e di parlare che prescrive a Dio come egli, debba essere in quanto Dio, che cosa debba fare come DioSe non è così, se non agisce così, si dispera di lui, o si nega la sua esistenza.

    Con quanta facilità proprio i credenti e praticanti, corrano il pericolo di voler disporre di Dio – naturalmente «in buona fede» – perché sono convinti di conoscerlo, può essere documentato da un episodio narrato in Ger. 42-43.

    Godolia, posto da Nabuccodonosor come governatore di Giuda dopo la distruzione di Gerusalemme, venne assassinato a Mizpa per motivi sconosciuti.  Temendo un’azione punitiva del re babilonese, un gruppo, consistente di Giudei che dimoravano a Mizpa o che si erano adunati in questa città, fuggirono verso l’Egitto.  Ma, da bravi credenti, non si volle fare questo

    passo senza avere la garanzia divina: Jahvè doveva benedire l’impresa, accompagnarli per così dire nel bagaglio di marcia, essere loro presente.  Perciò questo gruppo di fuggiaschi si rivolse a Geremia perché cercasse qual era la volontà di Dio e la facesse loro conoscere. Ed essendo brave persone, non volevano naturalmente disporre di Dio ma compiere la sua volontà.

    E’ quanto essi assicurano a Geremia: «Il Signore sia contro di noi testimone verace e fedele se non faremo quanto il Signore tuo Dio ti rivelerà per noi.  Che ci sia gradita o no, noi ascolteremo la voce del Signore nostro Dio al quale ti mandiamo, perché ce ne venga bene obbedendo alla voce del Signore nostro Dio» (Ger. 42,5 s.).

    La situazione è chiara.  Ci si sottomette interamente alla volontà di Dio.  Come potrebbe essere altrimenti, se ci si rivolge a Dio?  Dieci giorni dopo il profeta comunica loro la volontà di Dio: devono restare in Giuda e non fuggire in Egitto!  Anche questa comunicazione è chiara.

    Eppure i devoti commissionari della preghiera rifiutano questo verdetto divino. «Una menzogna stai dicendo!  Non ti ha inviato il Signore nostro Dio a dirci: non andate in Egitto per dimorare là; ma Baruch figlio di Neria ti istiga contro di noi per consegnarci nelle mani dei Caldei, perché, ci uccidano e ci deportino in Babilonia» (43,2 s.). Questa reazione al verdetto del profeta mostra ormai il vero volto di quelle persone pie.  Esse non volevano conoscere la volontà di Jahvè ma soltanto vedere confermati da Dio i propri progetti e propositi così ragionevoli.  Malgrado le loro parole buone e religiose, mancava loro qualunque apertura a Dio.  E poiché Dio attraverso Geremia non aveva deciso come essi avevano pensato e desiderato, quella risposta non poteva venire da Dio.  Essi infatti avevano le loro idee ben solide a riguardo di Dio e sapevano già in partenza che cosa egli dovesse dire e fare, anzi che cosa egli potesse pensare e volere. La loro immagine di Dio, che emerge attraverso le loro parole, costituiva il criterio sicuro che permetteva loro di distinguere l’umano dal divino.  Ma è proprio contro questa posizione che Geremia si esprime.  Ed egli è in grado di farlo perché nell’esperienza narrata in Ger. 15 ha conosciuto qual è la collocazione del pensiero umano su Dio, ha visto come un’immagine consolidata di Dio deve cadere di fronte alla realtà divina, se ci si abbandona a questa realtà e non la si liquida come impossibile.

    Il profeta parla per trovare ascolto; diversamente, il suo messaggio cade nel vuoto.  Tuttavia, egli deve tenere dinanzi agli occhi la propria missione.  Non può piegare e adattare la parola di Dio per trovare consenso e approvazione; deve annunciare senza riduzioni il messaggio affidatogli, opportune et importune!

    L’episodio di Geremia richiama emblematicamente al messaggero della parola il suo ruolo.  Il profeta deve contrastare chi pretende di avere il sigillo di Dio sulla propria azionePerciò in Ger. 15,20s. vengono rinnovate le promesse legate alla vocazione, già annunciate in 1,18 s. Toccando Geremia, esse cadono ormai su un terreno ben diversamente preparato, trovano una comprensione ben più profonda che quando vennero pronunciate la prima volta, alla vocazione.

    Il profeta ha oramai imparato, e ora sa perché quasi inevitabilmente egli dovesse diventare «oggetto di litigio e di contrasto per tutto il paese» (v. 10). Ora egli potrà prendere su di sé più facilmente o almeno con più sicurezza il confronto e lo scontro con il suo popolo, perché ha sperimentato in se stesso di che si tratta.  Deve diventare l’uomo del contrasto e del litigio perché nella sua persona al pensiero umano, alla chiusura umana dell’io e alla sua schiavitù deve contrapporsi la sfera del divino come il contropolo autentico, come l’unica realtà valida, davanti a cui non c’è che da tenersi aperti e da mettersi a sua disposizione.  Tutto ciò è possibile soltanto se ci si affida a Dio anche quando non lo si capisce.

    Posted by attilio @ 15:41

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