• 02 Mag

    Caino: la parola alla violenza

    (Gen 4)

    La figura di Caino ci riporta immediatamente al racconto biblico dell’omicidio di Abele, ponendoci di fronte un personaggio che lungo la storia è diventato il sinonimo di assassino. Ma liquidare la vicenda di Caino considerandola solo «una brutta storia di violenza», frutto di un animo malvagio, sarebbe molto semplicistico e soprattutto non terrebbe conto della complessa situazione che ci presenta il capitolo quarto della Genesi. Dobbiamo allora chiederci da dove venga la violenza di Caino, e perché egli arrivi a uccidere il fratello Abele.

    L’analisi delle particolarità terminologiche del testo biblico, in continuità con quanto narrato nei primi tre capitoli, ci potrà aiutare a illuminare il contesto vitale in cui si muove Caino.

    Chi è dunque Caino? È «figlio dei suoi genitori!». Questa risposta, tutt’altro che banale, ricollega la vicenda di Caino con quella di Adamo ed Eva. Caino è il frutto «genetico», ma anche «logico», delle scelte della prima coppia umana. Non si può quindi dimenticare che i genitori di Caino sono coloro che, pur avendo la possibilità di vivere nell’abbondanza dell’Eden, ne erano stati allontanati a motivo della loro avidità. Il testo ci dice che dopo essere stati cacciati dal giardino «Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino» (4,1a). Potrebbe sembrare l’inizio di un’altra storia, ma in realtà è lo sviluppo di quanto è successo precedentemente. Non si può quindi capire Caino senza tener conto dell’esperienza dei suoi genitori.

    Il testo ebraico presenta alcune sottolineature terminologiche che confermano il legame con i racconti precedenti. Innanzitutto l’azione è riferita ad «Adam» (termine usato nei primi capitoli per indicare l’essere umano prima della distinzione sessuale tra uomo e donna): è lui il soggetto, mentre la sua donna è solo l’oggetto. Il verbo usato (yada‘) letteralmente significa «conoscere». È uno dei verbi fondamentali della Bibbia, ed ha un ruolo particolare nel racconto del peccato di Genesi 3 (Adamo ed Eva volevano infatti «conoscere il bene e il male» 3,5). Solo in pochi casi nella Bibbia viene usato per esprimere il rapporto sessuale, ponendo però in evidenza una relazione non armonica, frutto del dominio di un soggetto sull’altro (è il caso dello stupro, della prostituzione o dei rapporti omosessuali). La presenza di questo verbo dà quindi una valenza negativa all’unione tra Adamo ed Eva, ponendo in evidenza la sottomissione della donna al potere dell’uomo, che non le riconosce la dignità di persona, ma solo come «oggetto» del proprio desiderio. Basterebbe già questo per comprendere meglio l’origine del disagio di Caino, ma il testo ci suggerisce ulteriori spunti.

    Infatti Eva, subito dopo aver partorito il suo primogenito, esclama compiaciuta: «Ho acquistato un uomo dal Signore» (4,1b). Con questa espressione la donna pone in evidenza due elementi: il primo è che ella ha acquistato (il nome «qajin» deriverebbe dal verbo «qanàh» che significa «acquistare») e quindi «possiede» un uomo (=maschio/marito), e così può compensare la sua sottomissione all’Adam; il secondo riguarda la paternità di Caino, attribuita inaspettatamente a Dio, lasciando l’Adam fuori dal rapporto tra la madre e il figlio. La donna che si è sentita «posseduta» dall’Adam, ora possiede e domina il proprio figlio, vedendo in lui l’alternativa al marito.

    Caino quindi è il frutto, e al tempo stesso la vittima, di una relazione umana distorta che realizza quanto aveva annunciato Dio alla donna: «verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (3,16). Il figlio viene «strumentalizzato» dalla madre per rivalersi del dominio dell’uomo, instaurando con lui un rapporto unico e privilegiato che non lascia spazio alla presenza di nessun altro.

    Il racconto prosegue poi con la nascita di Abele che conferma questa situazione: il secondo figlio non ha alcuna considerazione agli occhi della madre. Per lui non ci sono parole di compiacimento, e neppure viene riconosciuto come figlio, ma semplicemente come «fratello». Gli viene imposto un nome che esprime tutta la sua inconsistenza («Abele» significa soffio, vento, vanità), poiché il suo arrivo non rompe la relazione privilegiata tra la madre e il primogenito.

    Il testo sottolinea la diversità dei due fratelli («Abele era pastore e Caino lavoratore del suolo» 4,2), senza però affermare che questa fosse motivo di conflittualità. Il contrasto sorge invece a causa di Dio. Quando Abele e Caino offrono al Signore i frutti del loro lavoro, scoprono di essere «guardati» diversamente da LuiIl Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino» (4,4-5). Il testo non dice che l’offerta di Caino fosse indegna, ma solo che non fu gradita agli occhi di Dio.

    Ci domandiamo dunque, perché Dio guardò ad Abele e non a Caino? Dal punto di vista di Caino il comportamento del Signore risulta ingiusto, perché rifiuta la sua offerta sincera. Il suo desiderio di instaurare un rapporto privilegiato con il creatore viene frustrato dalla risposta negativa. Ma dal punto di vista di Dio, la risposta divina viene a compensare l’ingiustizia subita da Abele. Egli che è stato rifiutato come figlio dalla madre e dal fratello, viene ora «guardato» da Dio, e la sua considerazione gli ridona consistenza. Caino vale agli occhi di Eva, ma Abele vale agli occhi di Dio.

    Per questo l’azione di Dio, mentre riabilita Abele, cerca di rompere il legame asfissiante tra Caino e la madre, aprendolo ad un nuovo rapporto con il fratello. Ma Caino non capisce, anzi sente che l’azione di Dio gli pone di fronte un «altro» che egli vede come antagonista. Invece di riconoscere nel fratello un’occasione di relazione, Caino, schiavo com’è del suo desiderio infantile di essere lui l’unico figlio di Eva e di Dio, vede in Abele un ostacolo alla sua felicità. Per questo Caino «ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto» (4,5b). La traduzione letterale del testo («bruciò molto a Caino e il suo volto cadde») fa pensare non tanto ad una reazione superficiale di Caino, quanto ad un vero e proprio stato di sofferenza e depressione. Caino è chiuso nel suo dolore e soffre a motivo della sua gelosia: l’essere cresciuto in un rapporto totalizzante con la madre, gli rende ora insopportabile ogni limitazione al suo desiderio di essere l’unico.

    Nasce in lui l’idea che la causa del suo soffrire sia fuori di lui, e proietta tutto questo nella presenza di Abele. Caino si sente solo e abbandonato da Dio. Ma non è così. Infatti Dio non ignora la sua sofferenza e proprio per aiutarlo a comprendere la sua situazione gli rivolge la parola: «perché sei irritato e perché il tuo volto è abbattuto?» (4,6). La domanda invita Caino a fare luce sui motivi profondi del suo disagio e a coglierne l’origine. Dio ricorda a Caino che è lui a decidere della sua vita, presentandogli un’alternativa: egli può  fare il bene, oppure può fare il male. Il testo non esplicita cosa significhi«fare il bene», ma se lo ricolleghiamo al racconto della creazione, scopriamo che «il bene» è la relazionalità: «non è bene che l’uomo sia solo» (2,187.

    Caino quindi è invitato ad aprirsi alla relazionalità, accogliendo la presenza del fratello in modo positivo. Se egli agirà così potrà «rialzare il suo capo»: potrà quindi guardare avanti, avrà cioè un futuro, ma anche «saprà sopportare» la fatica della relazione, e la sofferenza causata dalla sua gelosia. Se invece egli non farà il bene, sarà in balia del peccato che è «accovacciato alla sua porta» (4,7). Il termine peccato (hatta’) significa innanzitutto «sbagliare bersaglio», «fallire l’obiettivo», «mancare al proprio scopo». Per Caino quindi il rischio è di non realizzare il proprio desiderio di vita. La causa di questo fallimento viene descritta come una forza istintiva presente nell’uomo, che ricorda molto da vicino il serpente del capitolo terzo. Questa forza siede alla «porta» di Caino, nel luogo di passaggio e di comunicazione tra la sua interiorità e il suo agire. Egli è chiamato a dominarla, perché non sia questo istinto a guidare le sue azione e i suoi giudizi. Se la saprà dominare allora potrà rompere con i condizionamenti del suo passato, svincolandosi dalla logica di dominio e di potere che lo ha generato.

    Per questo Dio lo invita a parlare, a «umanizzare» quella forza istintiva che la sofferenza ha risvegliato in lui. Questo sarebbe il momento per «far parlare» la propria rabbia, ed esprimere la propria recriminazione nei confronti di Dio. Ma Caino non parla. Tiene tutto dentro nel suo mutismo animalesco e la sua sofferenza si trasforma in aggressività contro Abele. In lui «parla la violenza». Il testo ebraico sottolinea questa realtà con una costruzione di difficile traduzione: «disse Caino ad Abele suo fratello e avvenne che quando furono in campagna alzò la mano contro di lui » (4,8). Il suo «dire» non è una parola umana, ma violenza animale che si scatena contro il fratello, ritenuto causa di tutto. Guidato dall’istinto sfoga la sua rabbia, pensando così di ottenere tutto per sé.

    Ma in questo modo Caino sbaglia, perché Abele non c’entrava nulla e la causa vera del suo soffrire era dentro di lui. Per questo il Signore interviene invitandolo a riconoscere la verità, cioè il valore della fratellanza e la sua responsabilità: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (4,9). A questa domanda Caino reagisce bruscamente negando di averlo ucciso e rifiutando la via del dialogo.

    Ma Dio non può non reagire di fronte alla violenza e per questo chiede conto a Caino della sua azione: «cosa hai fatto?» (4,10). Caino è chiamato a fare quello che non ha fatto prima, cioè a «dire la violenza», «umanizzando» la sua aggressività perché questa non uccida più. Dio diventa il giudice che interviene per fermare la violenza facendo verità e mostrando a Caino le conseguenze della sua azione.

    Il rifiuto della fratellanza conduce alla maledizione. Caino è intimamente segnato dalla morte che contamina tutte le dimensioni della sua esistenza. Non avrà più cibo dalla terra, non avrà un luogo dove abitare e neppure una compagnia con cui vivere; sarà «ramingo e fuggiasco» (4,12). Lui che si è fatto padrone della vita altrui, non è più padrone della propria: sarà costretto a fuggire e a nascondersi dagli altri, e soprattutto da se stesso e dal proprio senso di colpa. Il suo desiderio di vita e di felicità, accecato dalla bramosia, si è trasformato in uno strumento di morte.

    Questo era quanto Dio gli aveva preannunciato invitandolo a parlare, perché l’unico antidoto alla violenza è il dialogo, cioè la capacità di ascoltare l’altro, accogliendolo come fratello. Ma quando Caino parla è ormai troppo tardi, e non può fare altro che riconoscere la propria colpevolezza e invocare da Dio la difesa della propria vita.

    Il racconto si chiude con queste parole: «Caino uscì da davanti al Signore e abitò nel paese di Nod»  (4,16). Caino esce così da quella situazione che lo aveva generato, nel bene e nel male, e si apre ad una vita nuova segnata dal suo passato di gelosia e violenza. La sua vicenda resta per noi un monito a non lasciarci guidare dalla nostra ansia di vita, ma a riscoprire nella presenza benevola di Dio Padre un’occasione di fiducia in lui e negli altri, sapendo che la violenza non è frutto di un animo malvagio ma la distorsione del nostro desiderio di felicità.

    Posted by attilio @ 11:58

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