• 25 Mar


    Un incontro e una missione

    Es 2,23; 3

    di p. Attilio Franco Fabris


    Finora nella vicenda narrata di Mosè non vi è stata traccia alcuna di una manifestazione divina. Egli ha messo su famiglia, ha una moglie  e due figli, è divenuto pastore delle greggi del suocero.

    Una riflessione su quest’ultimo aspetto: l’essere pastori riveste nel linguaggio biblico un significato simbolico. Dio si autodefinisce “Il pastore” del suo popolo,  “pastori” per partecipazione sono chiamati coloro ai quali il Signore intende affidare l’incarico di guidare il suo popolo, soprattutto i re (2Sm 5,2; Gr 28; Sal 78,70-72; Mt 9,36; Gv 10,11-16; 1Pt 5,2-4;….). Davide stesso sarà “preso dal gregge”. Gesù si autodefinirà come “il buon pastore” e “pastori” saranno chiamati coloro ai quali egli affiderà il compito di “pascere il suo  gregge”. Il fatto che Mosè sia “pastore” già sta già ad indicare il ruolo che JHWH gli affiderà.

    Un fuoco che non consuma

    Stando alla cronologia biblica ha ormai ben ottantanni! E’ pastore da quarantanni (ritorna la scadenza del numero 40! Un tempo compiuto). Come avrà vissuto interiormente in tutti quegli anni Mosè? Avrà probabilmente cercato di rimuovere il ricordo dei suoi fallimenti, avrà cercato in ogni modo di adeguarsi a quella che ormai considerava la realtà definitiva della sua vita, adattandosi a vivere come straniero. In quei lunghi anni e nel silenzio del deserto sarà riandato con un senso di amarezza ai suoi sogni sgretolatisi uno dopo l’altro. Di tutto questo non è rimasto nulla se non forse una lontana nostalgia che lentamente lo consuma: c’è qualcosa nel cuore di Mosè che non si estingue malgrado tutto, qualcosa di indecifrabile, che “non si consuma”. Come una passione quieta e profondissima che non vuole assolutamente svanire. Non fa parte anche questa della nostra esperienza?

    Come ogni buon pastore egli è nomade, sempre alla ricerca di nuovi pascoli nella sterile penisola del Sinai. E in uno di questi spostamenti avrà un appuntamento con Dio che segnerà una nuova e improvvisa svolta decisiva. Questa teofania avviene attraverso il segno di fuoco di un roveto (“seneh”): ma ciò che attira la curiosità del nostro Mosè non è tanto il fuoco quanto il fatto che esso non consuma il roveto! Un Midrash riporta la seguente spiegazione: “Come questo roveto brucia in mezzo al fuoco, eppure non si consuma, così gli Egiziani non potranno distruggere Israele”. In ogni caso il fuoco sta ad indicare la presenza di Dio e nello stesso tempo la sua trascendenza: non lo posso afferrare, ma ne sperimento il calore e la luce.

    La prima cosa che fa Mosè dinanzi a quel roveto che brucia senza consumarsi è meravigliarsi: “rimase stupito” C’è dunque qualcosa in questo Mosè ottantenne che malgrado tutto non è venuto meno: il desiderio e l’apertura a un qualcos’altro.  Egli è ancora capace di  stupore, di un interesse e di una domanda per il nuovo: “Perché?” (cfr Gv 1,35-39). Mosè non capisce e tuttavia ne è attirato: “Voglio avvicinarmi e vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non si consuma?” (3,3). Questo è indice della sapienza. Dice s. Tommaso d’A. nella Summa: “Alla sapienza si oppone la stoltezza, che è di chi non si commuove neppure per ciò che fa stupire, e che consiste nell’ottusità del cuore e del senso; alla sapienza si oppone pure la fatuità, che consiste nella privazione totale del senso spirituale”. Mosè è un uomo sapiente che lascia emergere in sé la domanda.  Ora la capacità di lasciar emergere le domande vere è all’origine di tutto ciò che di profondamente umano, e dunque religioso, sta in noi. Il dramma oggi è spesso lì ottusità di coscienze, che più o meno condizionate, non vogliono o non riescono a far scattare questo momento essenziale.

    Ecco il nostro Mosè titubante e timoroso avvicinarsi al roveto incandescente: in quel momento si sente chiamare per nome nel silenzio di quel deserto e dinanzi a quel fuoco.  Egli non reagisce con la fuga ma con un immediato “Eccomi!”. L’essere chiamato per nome equivale a capire che sono conosciuto da Dio, che il mio destino gli appartiene, e dunque il chiamare per nome equivale a ricevere da lui un mandato: “Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!».” (Gn 22,1). JHWH da sempre conosce per nome Mosè, perché ha trovato grazia ai suoi occhi (“il bambino era bello”) sin dal momento della sua venuta al mondo.

    Questa fiamma diviene sempre più consapevolezza di una presenza. Divina! La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. (Es 24,17); “Viene il nostro Dio e non sta in silenzio; davanti a lui un fuoco divorante, intorno a lui si scatena la tempesta (Sal 49,3). Pensiamo allo sconvolgimento di Mosè: “Dunque questa terra è sacra? Questo deserto maledetto luogo di sciacalli e banditi è la casa di Dio? Questo deserto in cui mi sentivo abbandonato da tutti, un fallito nella vita è il luogo in cui Dio mi parla?”. Dio può rivelarsi dunque dove meno ci aspetteremmo di trovarlo e ciò ci impone un atteggiamento di ascolto, di umiltà, di vigilanza. Mosè intuisce così una verità essenziale: non è lui che ha cercato Dio magari all’ombra di qualche santuario, ma è Dio che ha cercato Mosè lì dov’era e quando meno lo aspettava e quel luogo è “terra santa” perché Dio nella sua gratuità vi si manifesta (cfr Gn 28,16-17).

    E la voce di Dio da questo fuoco inestinguibile parla. Ciò che è fondamentale in quest’evento teofanico è proprio la PAROLA che Mosè sente indirizzata a lui. È un incontro con un Dio che gli rivolge una parola! Non è un “qualcosa” ma un “qualcuno” che gli si fa incontro. Questo è importante: Mosè non fa esperienza di un “dio” generico senza volto né nome, sconosciuto. Quel Dio che gli appare è lo stesso di Abramo, dei patriarchi. Il Dio che guida la storia.

    Ci interroghiamo: il “Dio” con il quale mi relaziono è una persona che mi chiama per nome e mi interpella? Lo avverto tale? E come tale mi pongo dinanzi a lui? O è un “dio” che “ha bocca e non parla”, “ha orecchi e non ode”? Un dio-idolo alla fin fine costruito da me e fatto a mia immagine?

    Ascolta quella voce sconosciuta che gli impone: “Non avvicinarti, togliti i sandali dai piedi, perché il luogo dove tu stai è una terra santa”.  L’uomo vorrebbe possedere (pestare con i sandali il terreno significa rivendicarne la proprietà) e padroneggiare tutte le sue esperienze, anche quelle “religiose”, egli vorrebbe inserirle nei suoi schemi già preordinati e precostituiti. Con il Dio che si rivela sul Sinai questo non può funzionare: per Mosè il suo voler vedere il roveto ardente poteva trasformarsi nella tentazione di voler inquadrare Dio nella sua visione di Dio. E’ per questo che la voce gli intima: “Mosè così non va; levati i sandali, perché non si viene a me per incapsularmi nelle proprie idee; non sei tu che devi integrare me nei tuoi schemi, ma sono io che voglio integrare te nel mio progetto”. Al Dio vero ci si avvicina a piedi scalzi, in silenzio, non imponendo il proprio passo, ma lasciando che sia Lui a dirigere il nostro (cfr Is 40.25-26). E’ questo il significato più vero del “timor di Dio” che non è paura ma riconoscimento della grandezza e santità di Dio.

    Mosè in segno di rispetto e adorazione verso il mistero invisibile si toglie i sandali e si vela il volto: Solo più tardi ardirà innalzare a JHWH la richiesta di vedere il suo volto: ma non gli sarà concesso se non il vedere Dio “di spalle”: “Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere” (Es 33,23). Infatti “nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20). Sarà la richiesta stessa dell’apostolo Filippo nel cenacolo rivolta a Gesù: “Mostraci il Padre!”. Finalmente la preghiera può essere esaudita pienamente: “Chi vede me vede il Padre!”

    Un Dio che ti accompagna nella storia

    Disse ancora Dio: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (v. 6): Mosè scopre con stupore immenso che quel Dio che si sta a lui rivolgendo è lo stesso che si è rivelato ai suoi padri in terra di Canaan. Questa parola è rassicurante, perché un uomo che, come Mosè, sa di avere sbagliato tutto, rischia di perdere la “memoria”. Egli è invitato da Dio a riandare alla storia per scoprire che essa è stata il luogo dell’iniziativa di Dio.

    È facendo “memoria” della mia storia che imparo a riconoscere l’intervento di Dio che da sempre mi ha accompagnato. Il mio cammino non è stato mai solitario, anche quando ho intrapreso direzioni sbagliate. Scopro un Dio fedele e paterno che ha saputo, nonostante e meglio servendosi di tutto, portarmi all’incontro con lui.

    Dio continua: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti. Conosco infatti le sue sofferenze, sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese, verso un paese bello e spazioso, dove scorre latte e miele. Ora il grido degli Israeliti è arrivato fino a me ed io stesso ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano”. Dio dunque per primo ha “visto”, ha “udito”, “conosce” le sofferenze del suo popolo. È “sceso per liberarlo ( la traduzione più esatta sarebbe “per strappare” che indica un’azione faticosa e impegnativa, laboriosa, quasi Dio dovesse “faticare” a strappare il suo popolo per ridargli libertà. Ma questa fatica è dovuta alla resistenza dell’uomo non solo del faraone ma del popolo di Israele stesso).

    In certo qual modo è come se dicesse a Mosé: “Finora hai pensato di essere stato solo tu a prenderti cura del mio popolo e di volerlo salvare. Credevi che l’iniziativa fosse anzitutto solo tua con l’illusione di volermi coinvolgere tu in essa. Non hai capito che tutto proveniva da me: adesso comprendi che io vedo, sento, che io provo compassione per il mio popolo.  E se in te vi è la stessa compassione sono io che te la do, se c’è in te il desiderio della libertà, sono ancora io che te la do”. Il primato spetta sempre a Dio e stolto colui che crede di essere lui il protagonista e l’interprete:

    E gli disse: «Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questo paese». (Gn 15,7)

    Ecco il Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco. La terra sulla quale tu sei coricato la darò a te e alla tua discendenza. (Gn 28,13)

    Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questo paese, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto». (Gn 28,15)

    Io sono il Dio di Betel, dove tu hai unto una stele e dove mi hai fatto un voto. Ora alzati, parti da questo paese e torna nella tua patria!». (Gn 31,13)

    Ecco sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine.  (Ap 21,6)

    Ora  va!

    Mosè ha compreso che il suo destino appartiene a Dio. Se un tempo credette di essere lui il protagonista della sua vita e della sua missione, ora gli è stato rivelato che tutto questo appartiene all’Altro. E dunque solo a questo punto Dio dona il mandato a Mosè: Ora va!”. Mosè è scelto da Dio come suo mediatore e collaboratore proprio per quell’opera che tanti e tanti anni prima credeva fosse solo sua: “Ora và! Io ti mando dal faraone; fa uscire il mio popolo dall’Egitto”.

    Ma questo Mosè ora è ben diverso: ha conosciuto la sconfitta, l’esilio, il mistero. È solo un anonimo pastore di greggi e capre in mezzo al deserto, non è più di certo un emergente, un “e-gregio”!  Ha preso coscienza della sua povertà. E per agire nella storia Dio si serve proprio di poveri strumenti umani, come un giorno si servirà dell’umanità povera e vilipesa di Gesù di Nazareth: “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili.  Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”. (1Cor 1,27-29). Nel suo discorso Stefano, è stupito da questa iniziativa divina: “Questo Mosè che avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?, proprio lui Dio aveva mandato per esser capo e liberatore, parlando per mezzo dell’angelo che gli era apparso nel roveto” (At 7,35).

    La rivelazione del Signore nella vita di un uomo non lascia spazio ad intimismi inutili: ogni incontro con Dio si trasforma sempre in una chiamata per una missione: Nel passare, vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Egli, alzatosi, lo seguì” (Mc 2,14); Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui.  Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. (Mc 3,13-15).

    Il mio incontro con Dio per essere autentico deve racchiudere sempre una chiamata per un compito, una missione da svolgere nella Chiesa e per il bene del mondo. Se esso dovesse rinchiudersi in se stesso, in una sorta di intimismo individualistico, è ben da sospettare che esso non sia autentico.

    Posted by attilio @ 08:55

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