• 21 Mar

    Mosé: l’uomo scelto da Dio per la salvezza di Israele
    Es 2,1-22

    di p. Attilio Franco Fabris

    La figura di Mosè riveste un’importanza fondamentale nell’ambito della tradizione ebraica e biblica: gli si è  voluto attribuire tutti quei caratteri che servono a ricondurre a lui l’origine dell’intera storia del popolo di Israele: Mosè viene considerato l’autore del pentateuco, il promulgatore della Torah, l’organizzatore del popolo e del culto a JHWH, a lui vengono attribuite le prerogative di guida, di profeta, di sacerdote. Mosè è sicuramente un personaggio storico. Il suo nome suggerisce un rapporto con l’ambiente egiziano, e tutto conferma che abbia avuto un ruolo decisivo nella vicenda dell’uscita dall’Egitto di Israele e che abbia rivestito effettivamente il compito di guida e organizzatore dei gruppi di fuoriusciti ebrei. Il cap. 2 ci parla poi di particolari rapporti intercorsi tra Mosè e il popolo dei madianiti (2,15-22) che abitava la regione settentrionale della penisola del Sinai.

    Non mancano testi in cui Mosè è presentato come una figura fondamentale per la storia e la fede di Israele.

    Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè –

    lui con il quale il Signore parlava faccia a faccia –

    per tutti i segni e i prodigi che il Signore

    lo aveva mandato a compiere nel paese di Egitto,

    contro il faraone, contro i suoi ministri, contro tutto il suo paese,

    e per mano potente e il terrore grande con cui Mosè

    aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele (Dt 34,10-12).

    Profeta in quanto è colui che si fa portavoce di JHWH stesso: profeta straordinario se Dio accorda a Mosè il dono di “parlare con lui faccia a faccia”. Il dono più grande promesso a Israele sarà un nuovo profeta “simile a Mosè”.

    Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. (Dt 18,15)

    In Mosè si storicizza la strategia salvifica apparsa nella figura leggendaria di Noè, e si ripete la chiamata solitaria di Abramo: a un uomo solo è affidata la liberazione di tutti.

    Il secondo e ultimo Mosè promesso dalla fede cristiana è stato riconosciuto in Cristo: il definitivo liberatore.

    La legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo (Gv 1,17)

    Egli è quel Mosè che disse ai figli d’Israele: Dio vi farà sorgere un profeta tra i vostri fratelli, al pari di me. Egli è colui che, mentre erano radunati nel deserto, fu mediatore tra l’angelo che gli parlava sul monte Sinai e i nostri padri; egli ricevette parole di vita da trasmettere a noi. (At 7,37-38)

    La persona e la storia di Mosè, come pure il dono della  Torah donata per mezzo suo, sono ritenute talmente essenziali dalle prime generazioni cristiane per giungere alla fede in Gesù Cristo e per comprendere la sua missione e la sua persona (cfr es. Matteo o Giovanni) , che lungi dal sorvolarle come una semplice “ombra dei beni futuri” meritano di essere amorosamente lette, meditate, pregate e contemplate

    La bellezza di Mosè e l’umorismo di Dio

    La nascita di Mosè accade nel momento in cui la cupa offensiva del faraone si sta scatenando più violenta nei confronti degli schiavi ebrei: Ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo (1,22).

    Nella fase più buia e drammatica un “uomo della casa di Levi prese in moglie una figlia di Levi” (2,1). Quest’uomo ha il coraggio di opporsi alla drammatica situazione e alla violenza saggia e folle nello stesso tempo del faraone. E’ un coraggio che nasce da una speranza che non vuole venga meno, nonostante tutto egli rimane aperto al futuro. In questo non arrendersi intravvediamo la spinta che scaturisce dall’azione dello Spirito santo nel cuore dell’uomo: un’azione che sollecita l’uomo, anche il più disperato, a rimanere aperto a un “qualcosa” di indefinito, ad un’attesa…di salvezza.

    Dai due nasce una figlia lasciata in vita e poi un figlio destinato ad essere gettato nel Nilo. Ma la madre vide che era bello (tov 2,2) e che doveva perciò essere sottratto al suo mortale destino. Con questo aggettivo non si vuole connotare tanto l’avvenenza o la prestanza fisica del neonato, quanto piuttosto si vuole indicare una fondamentale prerogativa teologica: Mosè è bello come sono buone e belle (tov)  le creature che escono dalle mani di Dio (Gen 1,31). La bellezza del bambino è dunque  segno che Dio sta avviando una nuova opera di creazione. Nelle tenebre fosche stese sulla terra dalla violenza omicida del faraone si apre improvvisamente uno spiraglio di luce.

    Il bambino viene tenuto nascosto per tre mesi tra l’angoscia e la gioia di averlo, ma tenerlo oltre significa la morte per tutti. Che fare? Si impone un gesto doloroso: uno stacco, una perdita sorretta da una fragile speranza. Così la morte e la vita si trovano strettamente intrecciate: per dare vita occorre saper perdere.  Dare vita comporta un saper morire all’altro e per l’altro, rinunciando alla pretesa del possesso, alla logica del trattenere ad ogni costo. Questo nostro modo istintivo di pensare porta in sé il seme della morte.

    Viviamo in un’atmosfera cupa fatta di disperazione, solitudine, violenza: eppure Dio continuamente fa scaturire segni di “bellezza” e di “speranza”. Siamo chiamati a riconoscerli, difenderli, promuoverli.

    Un paraddosale mezzo di salvezza

    L’espediente “folle” e disperato per porre in salvo il bambino è di consegnarlo “stoltamente” proprio alle acque di quel fiume portatrici di morte per tutti gli altri bambini ebrei. E’ la forza coraggiosa della disperazione. Mosè è deposto, debole e inerme,  in una “tebah”, una barchetta di papiro (Notiamo che lo stesso termine è usato solo un’altra volta in riferimento all’imbarcazione costruita su ordine di Dio da parte di Noè: Gn 6,14). Come al tempo di Noè (Gn 6-9) anche ora è in causa la salvezza del futuro popolo di Dio e questa salvezza è nuovamente affidata ad un mezzo fragile, una povera barchetta di papiro accompagnata e sorretta tuttavia dalla potenza della mano di Dio che guida gli eventi e la storia.

    In questa scena vengono ripresi antichi racconti estrabiblici (ad esempio quello che racconta la nascita del re Sargon re di Persia). In queste saghe vengono presentati spesso degli eroi che vengono da bambini affidati nella disperazione inermi e fragili al bosco, al monte o all’acqua perché siano sottratti alla morte violenta. In una lettura antropologica e psicologica si potrebbe dire che occorre che l’eroe per primo sia in qualche modo costretto ad entrare in una situazione di morte, perché solo uscendone vittorioso per virtù e provvidenza divina sarà capace di portare salvezza agli altri. Mosè ha dunque bisogno di “passare” lui per primo, quasi una sorta di iniziazione, attraverso le acque mortali del fiume prima di guidare il suo popolo in mezzo a quegli stessi flutti.

    Tutto si svolge in modo imprevedibile: affidato alle acque del Nilo, scoperto “casualmente” il piccolo susciterà il favore della figlia del faraone (2,3-6). Svezzato (ironia!) proprio dalla madre attraverso uno stratagemma, sarà poi allevato ed educato a corte e considerato come un figlio dalla figlia del faraone (2,7-10).  Il bambino è chiamato dalla figlia del faraone con il nome di “Moshéh”, un nome tipicamente egiziano, ma che tuttavia l’autore biblico vuol far risalire (indebitamente) alla radice del verbo “trarre.. sottrarre…”. Il nome vuole indicare il destino dell’uomo che lo porta: Mosè è il primo ad essere salvato, tratto, sottratto all’acqua dell’Egitto.

    Così il piccolo Mosè “figlio” della figlia del faraone riceve una solida e necessaria (in futuro) istruzione egiziana. Egli non è soltanto allattato a spese della figlia del faraone, non solo entra a far parte della sua famiglia reale adottato come figlio, ma secondo il discorso di Stefano negli Atti degli Apostoli, “venne istruito in tutta la sapienza degli egiziani ed era potente nelle parole e nelle opere” (7,22). È considerevole il fatto che “uno dei personaggi più significativi della religione di Israele sia stato educato non alla sapienza degli ebrei, ma a quella degli egiziani, che di certo nella storia non furono amici di Israele” (Spreafico). Un’idea di fondo soggiace a questo fatto: “il popolo più piccolo, più disprezzato dell’antichità è Israele, ed è per esso che invece che tutti i popoli vivono; non fanno altro che renderlo più ricco, come se fossero ordinati alla sua grandezza, alla sua persistenza; tutti i popoli gli girano intorno, tutti vivono per lui e non lo sanno” (Barsotti). Ogni cosa rientra in un progetto divino: non vi è realtà, per quanto apparentemente esterna e lontana da Dio, che non possa rientrare nel progetto di crescita del suo Regno.

    Sottolineiamo che ancora nella scena intervengono due straordinarie mediazioni deboli, sono due donne: una ebrea e l’altra egiziana.  Sono queste le protagoniste del racconto. Dio si serve realmente di tutto e di tutti!

    Un Dio che si serve di tutto e di tutti

    Si intravvede in tutto questo una sottile nota umoristica sulla modalità con cui Dio porta avanti il suo progetto.  Egli fa sì che il progetto del faraone sia capovolto, anzi la stessa corte del sovrano d’Egitto sarà il luogo in cui il liberatore degli ebrei verrà addestrato e preparato alla sua vocazione.

    Anche le acque del Nilo che dovevano inghiottire tutte le speranze di Israele, divengono strumento di salvezza per Mosè che vivrà così il suo primo attraversamento delle acque.

    Questi interventi divini e nascosti sembrano una spettacolare ironia nei confronti dei potenti della terra che si ritengono protagonisti ultimi delle vicende del mondo. Il messaggio è chiaro: Dio è capace di ribaltare proprio dall’interno le situazioni di male, egli è capace di tramutare gli strumenti di peccato in strumenti di salvezza. Il testo invece ci presenta un Dio che diffonde sulla storia umana i riflessi del suo sorriso, egli ribalta dall’interno le intenzioni malvage dei cuori umani e ne fa strumenti – spesso inconsapevoli – della propria storia di salvezza: “Ha rovesciato i potenti dai troni ha innalzato gli umili” canterà Miriam di Nazaret.  E il salmo 2 contempla il riso di Dio sulla storia:  Se ne ride chi abita i cieli, li schernisce dall’alto il Signore.

    Chiedo al Signore di poter contemplare e aver parte al suo sorriso sulle vicende umane, così ridimensionate alla luce della storia della salvezza. Chiedo la grazia di non spaventarmi dinanzi al rumore del male, ma di sorridere per il germoglio che spunta sempre tra le macerie. Speranza e sorriso sorretti dalla luce della pasqua del crocifisso risorto.

    Posted by attilio @ 09:28

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