• 13 Mar

    Alla scuola dei ladroni

    Lettura di Luca 23,39-43

    I due personaggi certo possono essere intesi, come normalmente avviene, quali figure contrapposte, negativa e positiva. Ma possono essere ripensate anche come «un’unica figura complessa che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con il Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione». A noi lettori viene così offerta la possibilità di un realistico cammino di fede che conduce fino alla sorprendente risposta di Gesù, che dona subito la salvezza.

    Ci mettiamo «Alla scuola del “ladrone” penitente»(1), alla scuola cioè di un «personaggio di prima grandezza e figura chiave del terzo vangelo… Forse la figura più singolare di tutta l’opera lucana»(2), qualcuno cui una sola parola bastò per ottenere la salvezza senza fatica (così osservavano, con ammirata e santa invidia, i Padri del Deserto per i quali invece la fatica quotidiana dell’ottemperare radicalmente e puntigliosamente nell’obbedienza a Dio era all’ordine del giorno per tutta la loro esistenza, all’insegna dell’opus deificum.

    Facciamocene aiutare, in ordine a recuperare quello sguardo al Messia Crocifisso, che, incontrando i due ladroni (Lc 23,39-43), tocca il culmine degli intensi e frequenti incontri salvifici di Gesù nel vangelo di Luca:

    32Con lui venivano condotti anche altri due malfattori, per essere giustiziati. [23.33] Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. 34 Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!» E dopo esser si poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte (Sl 22,19). 35II popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto!». 36Anche i soldati lo prendevano in giro, e gli si accostavano per porgergli dell’aceto, e dicevano: 37 «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!» 38 C’era anche una scritta, sopra il suo capo: «Costui è il re dei Giudei».

    39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». 40 Ma l’altro, prendendo la parola, lo rimproverava: «Neanche tu temi Dio per il fatto di condividere la stessa pena? 41 Noi giustamente, poiché riceviamo conseguenze di quanto abbiamo commesso, costui invece non ha commesso nulla di male». 42E diceva: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!» 43 Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

    Un’unica figura complessa

    Possiamo interpretare il dialogo tra Gesù e i due ladroni, appesi alla croce, come una straordinaria espressione di poetica teologica lucana, come ripresa geniale di due personaggi originariamente univoci, identici, di segno negativo (i due malfattori concrocifissi con Gesù, che Marco ci presenta accomunati nella blasfemìa contro di lui: 15,32), successivamente differenziati da Luca, che li configura diversamente, distinguendone uno ‘negativo’ e sarcastico (il primo ladrone), da uno positivo e confessore della messianità di Gesù (il «buon ladrone»). Due personaggi chiaramente antitetici, appositamente contrapposti, ma ripensabili nei termini di un’unica figura complessa, che consente di costruire un cammino di fede completo, attraverso due diverse reazioni all’incontro con il Cristo crocifisso: prima imprecando nella ribellione, ma infine invocandolo nella conversione, regalando così a noi lettori la possibilità di un cammino sofferto ma resipiscente che guida fino alla sorprendente risposta di Gesù.

    Questa chiave di lettura non è certo una novità (Filone di Alessandria, anche come esegeta oggi meritato oggetto di rinnovata attenzione, ce ne offre numerosi esempi, più o meno felici). Tuttavia essa non nasce tanto da una generica nostalgia per la tradizionale allegoresi (che, assieme a intollerabili esagerazioni, conosce pure usi pertinenti), né intende ricalcarne pedissequamente le orme. Trae spunto, invece, più direttamente – così par poter pensare – dalla stessa poetica lucana, una poetica di mitezza, all’insegna della mansuetudo Christi, che non solo privilegia la potenza del perdono, ma che ama presentare l’evento salvifico di Gesù come incontro paziente, attentamente e progressivamente mediato rispetto a un’accoglienza mai attuabile al primo colpo, destinata a fronteggiare anche molto accanite resistenze. Tra i quattro vangeli canonici, dove a pie’ sospinto spiccano indimenticabili numerosi incontri di Gesù con i suoi contemporanei, quello di Luca senza dubbio eccelle nel farcene assaporare la nutrita frequenza e straordinaria portata (con un debole tutto speciale per gli incontri di mensa). Proiettato lungo la sua «via», la sua salita a Gerusalemme – che in realtà è una ascesa al Padre – il Gesù di Luca infila incontri l’uno dietro l’altro, come una serie di momenti di grazia salvifica pienamente operativa, che proprio sulla croce dispiega tutta la propria straordinaria potenza, quando Gesù pronuncia quella parola in tutta la sua missione mai riservata ad alcuno: «in verità ti dico: oggi tu sarai con me nel paradiso!» (23,43).

    In particolare, Luca volentieri caratterizza questi incontri di Gesù con i propri contemporanei, piuttosto che in termini strettamente individuali, giocando invece sull’accostamento, più o meno simultaneo, di due personaggi distinti ma in realtà profondamente collegati, cioè sul raffronto parallelo tra due figure di volta in volta antagonistiche, ovvero piuttosto complementari (ancorché non esattamente alla pari): pensiamo, per intenderci, ai chiari paralleli tra Giovanni Battista e Gesù, Elisabetta e Maria, Maria di Betania e sua sorella Marta, i due figli del Padre, da entrambi – così diversi eppure più somiglianti tra loro di quanto non paia – puntualmente temuto e incompreso. E ancora non scordiamoci del pubblicano e del fariseo al tempio, del cieco di Gerico e di Zaccheo e, negli Atti degli apostoli, di Pietro e Giovanni, Pietro e Paolo, tanto per citare i più famosi. Si tratta di accostamenti vivaci, con esiti diversi, talvolta addirittura lasciati aperti, in sospeso per uno dei due personaggi (per cui il lettore si chiede legittimamente come avranno reagito infine, per esempio, Marta, o il figlio più vecchio, risentito verso il padre che festeggia il ritorno del minore, quello prodigo. E anche nel nostro caso: che reazione avrà avuto il primo ladrone dopo avere ascoltato i suoi due compagni di pena?).

    In termini di retorica classica, da parte dei suoi lettori più esperti, Luca è riconosciuto adottare qui l’espediente letterario (ben noto agli autori antichi) cosiddetto della synkrisis, cioè di un confronto sinottico tra due figure in qualche modo esemplari, su cui si può costruire addirittura un intero libro (un’opera gigantesca come le Vite parallele di Plutarco, ovvero come quel libro biblico, scritto direttamente in greco, della Sapienza di Salomone, con il diffuso raffronto iniziale tra il destino del giusto e dell’empio – capp. 1-5 -, nonché con quello tra Israele salvato e l’Egitto piagato dal Signore, ai capp. 10-19). Con un linguaggio più moderno parleremo di un gioco di doppio (ma lasciamo stare, per non complicarci la vita).

    Su questa linea di interpretazione, che valorizza il contributo attivo del lettore, oltre alla consuetudine lucana, ci porta anche il confronto di Luca con il testo di Marco, che anche per il racconto della passione gli fornisce il canovaccio narrativo di base, da raffrontare con altre tradizioni e da cui far emergere un ulteriore sviluppo drammatico. Per quanto riguarda il nostro episodio e personaggio, solo un brevissimo cenno circa i compagni di pena di Gesù ci offre il più antico testo di Marco. Urtante e spigoloso anche qui come suo solito, il più antico vangelo, proponendosi in termini di verosimile resoconto, con accenti trattabili come cronachistici, ci riferisce appunto che i due ladroni, concrocifissi con lui, in realtà non si distinguono affatto fra loro, proponendo ciascuno un atteggiamento diverso nei confronti di Gesù, ma lo insultano entrambi (Mc 15,31), unendosi così a modo loro al più generale coro sarcastico e blasfemo di passanti, sacerdoti e scribi, che monta dai piedi della croce:

    «Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse quello che ciascuno dovesse prendere. 25 Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. 26 E l’iscrizione con il motivo della condanna diceva: II re dei Giudei. 27 Con lui crocifissero anche due ladroni, uno alla sua destra e uno alla sinistra. ..29 I passanti lo insultavano e, scuotendo il capo, esclamavano: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, 30 salva te stesso scendendo dalla croce ! “. 31 Ugualmente anche i sommi sacerdoti con gli scribi, facendosi beffe di lui, dicevano: “Ha salvato altri, non può salvare se stesso! 32 II Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!”. E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano».

    Rispetto a questo particolare che fa piombare Gesù in un’atmosfera di truce disprezzo, Luca invece, da artista appassionato della mediazione della trascendenza nella storia, trae spunto geniale per cavarne un grande, magnifico incontro, senza pretendere di restituirci un resoconto, quanto piuttosto – da ciò che possiamo ragionevolmente intendere – illustrando drammaticamente, con ispirata creatività narrativa (qualcuno parlerebbe opportunamente di «immaginazione pasquale»), il processo di conversione, il cammino penitente che la croce di Gesù è capace di generare.

    Rielaborando liberamente questo più antico e marginale particolare della storia della passione in forza della sua attenzione speciale agli incontri di Gesù, Luca introduce un magnifico dialogo triangolare, senza paralleli con gli altri vangeli, «uno dei passi più importanti dell’intera opera lucana» che narrativamente e drammaticamente ci restituisce tutto lo spessore della verità dell’evento salvifico nella sua forza d’impatto sulla coscienza del peccatore.

    In un ascolto attendibile del testo lucano, e in sintonia con l’attuale clima ecclesiale – propizio per una lettura credente e perciò stesso intelligente dei testi, per quanto concerne il Magistero, nonché una larga quota degli studiosi, e dello stesso popolo di Dio -, diciamolo in santa pace (senza patemi apologetici, come pure senza alcun pregiudizio contro la sostanziale storicità dei vangeli): in quel dialogo tra crocifissi non cerchiamo qualche verità di cronaca. Come ragionevolmente par potersi pensare, non è quella che Luca ci restituisce. Un dialogo siffatto tra crocefissi, come possiamo facilmente presumere, sarebbe piuttosto improbabile di per sé, ma anche impossibile da registrare. A quel tempo non c’erano infatti ancora quei cronisti disinvoltamente petulanti, a caccia del dolore in diretta, pronti, come oggi spesso purtroppo avviene, a importunare gli agonizzanti di turno, issando fino alla loro scomoda postazione qualche microfono (una «giraffa», o qualche «pulce»), per carpire le parole che i tre si sarebbero scambiate nei loro ultimi momenti letali, poco favorevoli per qualsiasi ragionato confronto di idee. Sarà ben più sensato pensare a un ardito e geniale guizzo della penna lucana che, alla luce della fede pasquale che svela la potenza del Crocifisso, inventa un dialogo  tra i tre, mettendo in scena non una cronaca, bensì piuttosto una sua drammatizzazione della ben più decisiva verità salvifica di quell’evento di grazia, per darcene un’idea adeguata. E lo fa ripensandone l’impatto diretto, ma graduale, sulla coscienza peccatrice, propensa dapprima al sarcasmo incredulo e blasfemo contro un pretendente messia finito come e con i peggior delinquenti (Le 23,39); ma – in un secondo momento – capace di ricredersi a fronte del mistero del dolore innocente, in nome del timor di Dio, vindice di ogni empietà e retributore di ogni giustizia, e del regno inaugurato da Gesù, memoria vivente della sua misericordia (23,40-42).

    Insomma – per farla breve in rapporto a problemi la cui trattazione sarebbe qui troppo lunga e comunque fuori luogo – abbiamo buone ragioni per trattare i due ladroni distinguendoli (ovviamente), ma non separandoli (il che è meno ovvio). Trattandoli cioè proprio come se, alla fine, fossero un solo personaggio da ricostruire; e quindi per ascoltare le loro voci contrastanti – seguite infine dalla parola conclusiva di Gesù – come le tappe di un intreccio, che vede il cammino del peccatore passare dal sarcasmo incredulo iniziale all’invocazione di fede cristologica, per sfociare in un esaudimento il più sorprendente che si possa immaginare, oltre ogni aspettativa possibile, garantito dalla promessa finale di Gesù (23,43).

    Se si vuole, considerando le prime due tappe (23,39.40-41) come il monologo interiore di un’anima in dibattito con se stessa, impegnata a confutare il suo stesso proprio smarrimento – di quelli in stile antirretico, che tanto piacevano ad Evagrio Pontico -, che in premio al proprio travaglio riceve infine l’insperabile l’illuminazione salvifica promanante dal Messia Crocifisso (23,41).

    La coscienza del peccatore incallito

    Per la bocca del primo ladrone parla evidentemente la coscienza del peccatore incallito e perfino esasperatocoscienza tanto degradata e ferita, è senz’altro ribelle e impenitente; per ricomporsi, molto dovrà faticare, accettando appunto la voce successiva del «buon ladrone», che, in nome del timore di Dio, contrasterà vivacemente il sarcasmo impenitente zittendolo, e soprattutto risanandolo con l’invocazione subentrante alla blasfemìa, intuendo la potenza salvifica legata alla persona di Gesù, capace appunto di attrarre efficacemente il peccatore a conversione («ricordati di me, Gesù …!»). (socialmente parlando, altresì un delinquente, giudicato reo della più efferata e crudele pena capitale).

    In ogni caso, la situazione iniziale è chiara: alla radice, la coscienza del peccatore e del reo è per sua stessa definizione quella di un ribelle e impenitente. Costui non sa e soprattutto non vuol saperne nulla del proprio peccato, e tantomeno della grazia che può riscattarlo rispetto a cui lo separano anni luce.

    Il primo dei due occasionalmente accompagnati a Gesù lungo la via dolorosa fino all’estremo esito sul Calvario («venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati»; 22,32 – un particolare specifico, questo, della redazione lucana), a partire dalla sua disperata oscurità, non può/non vuole vedere alcuna salvezza in quell’inatteso compagno di patibolo. Non vede la vera differenza tra sé e lui.

    La sua disperazione cinica, senza timor di Dio, cancella la differenza capitale (salvifica) tra il proprio dolore colpevole e quello dell’innocente, tra il dolore schiavo e quello regale, messianico. Per il ladrone impenitente, Gesù è di fatto come lui, ridotto alla sua stessa stregua. Anzi, in quanto innocente, ma condannato come lui, Gesù vale molto meno di lui. Se il profeta e il bandito hanno la stessa sorte, subendo la stessa estrema pena legale («stessa fine per tutti!» – direbbe Qohelet), allora la sua brutta fine dimostra che evidentemente non c’è differenza tra chi serve Dio e chi non lo serve, non c’è alcun vantaggio a servire Dio (Mal 1-3).

    Varrà la pena ricordare che, uno come il primo ladrone, peccatore e delinquente, è per definizione un professionista, uno specialista di autosalvezza e di complicità, un buon esperto di potere arbitrario. Deve infatti vedersela contro un’intera società, un sistema da cui sarà braccato e perseguito in ragion delle sue malefatte. Sicché, alla fine, è uno che può contar solo su se stesso. Al massimo sui propri complici. Su questa base valuta Gesù: se veramente fosse il re dei giudei, dovrebbe disporre di una onnipotenza autoimmunitaria, con cui preservarsi, difendersi, una potenza capace di concedere salvezza a proprio piacimento e arbitrio. Godrebbe in sommo grado del potere di autosalvezza, molto più dotata e meno rischiosa di quella praticata da un qualunque ladrone. Una potenza che comunque, dispiegata all’ultimo momento con tanto di effetto teatrale, rispetterebbe le leggi più elementari della solidarietà nella disgrazia, della complicità, schierandosi con i compagni di pena, e con le vittime del supplizio capitale, piuttosto che a oltranza, secondo un’insana generosità, con i propri carnefici! Ne capiamo senza troppa fatica il pensiero: invece di perdonar loro, salva te e noi ora qui con te! Gesù gli appare debole come Messia, e scarsamente solidale come compagno di sventura. Simultaneamente segnato dalla massima impotenza, e da nessuna complicità. Piuttosto che invocar perdono sui suoi nemici, Gesù dovrebbe preoccuparsi della salvezza propria e perfino di quanti sono nella sua stessa condizione. Chiedendogli di produrre un miracolismo complice, di parte, il ladrone impenitente rinfaccia una potenza e una solidarietà deficitarie.

    Ma in realtà, propriamente, non chiede nulla, dal momento che, piuttosto che come una vera supplica, la sua suona infatti come una provocazione sarcastica e blasfema, un insulto prolungato, reiterato (Le 23,39). Ai suoi occhi la singolarità messianica di Gesù rispetto alla comune sorte dei malfattori è solo illusoria e simulata. Su di lui il ladrone la pensa proprio come i loro carnefici. Il mistero della regalità del crocifisso, la signoria del dolore innocente, il giusto sofferente, il Messia rifiutato dal proprio popolo, che tuttavia intercede e invoca perdono proprio per i suoi, rivelatisi nemici, per lui è una totale assurdità, sterile per sé e per gli altri come lui. Questa è la grande tentazione del peccatore indurito di fronte al Crocifisso. Del resto è proprio così: del mistero della croce non si vuole sapere, resta oscuro e temibile, si ha paura a fare domande come i discepoli in via con Gesù (Le 9,43-45).

    Non a caso il Servo del Signore fa distogliere lo sguardo, suscita assoluta repulsione, che è una non volontà di confronto, ovvero incapacità di lasciarsi interrogare:

    Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi,

    non splendore per provare in lui diletto.

    Disprezzato e reietto dagli uomini,

    uomo dei dolori, che ben conosce il patire,

    come uno davanti al quale ci si copre la faccia,

    era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima (Is 53,2-3).

    Sguardo di fede

    Arriva però – quantomeno può davvero arrivare – un momento in cui lo sguardo al crocifisso si trasforma, rivolgendosigli in modo diverso (cfr. Gv 19,37), proprio come accade ai contemporanei del Servo del Signore, che prima lo disprezzano, ma poi si ricredono completamente su di lui, trasformando il loro occhio disgustato in uno sguardo di fede:

    Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,

    si è addossato i nostri dolori,

    e noi lo giudicavamo castigato,

    percosso da Dio e umiliato!

    Egli è stato trafitto per i nostri delitti,

    schiacciato per le nostre iniquità.

    Il castigo che ci da salvezza si è abbattuto su di lui;

    per le sue piaghe noi siamo stati guariti (Is 53,4-5).

    Questa trasformazione di sguardo, finalmente capace di percepire la singolare differenza del messia sofferente, è evidentemente la stessa grazia di cui gode il Buon Ladrone rispetto al suo compare.

    Nonostante le apparenze contrarie, per lui c’è enorme differenza tra loro due e Gesù, che pure pende dallo stesso patibolo. Così la voce dei due Ladroni, feccia dell’umanità, se inizialmente fa lugubre eco alle dichiarazioni di passanti, sacerdoti e scribi, successivamente riecheggia Pilato (23,4.14.16) ed Erode (23,15), riconoscendo l’innocenza di Gesù, che «non ha fatto nulla fuori luogo». In merito il Buon Ladrone dimostra di possedere una sua sana teologia del timor di Dio, in base alla quale innocenza e colpevolezza, nonostante le terribili confusioni degli uomini e dei loro tribunali, fanno la differenza, per cui comunque una retribuzione diversa pende sul capo di chi fa il bene o il male. Timor di Dio altro non è che il rispetto delle autentiche differenze, in primo luogo tra uomo e Dio, ma includendo anche il rispetto per il prossimo, tutto quello appunto di cui non dispongono i carnefici (e neanche il compagno di pena).

    Il Buon Ladrone nutre poi evidentemente fede in un oltre-questa-vita, facendo conto in una condizione futura definitiva in cui la confusione apparente tra buoni e cattivi sarà superata da parte del giudizio divino. In questo condividerebbe la lucida considerazione della Lettera agli Ebrei, che fissa lucidamente le condizioni fondamentali minimali della fede: credere non solo che Dio c’è, ma anche che retribuisce tutti gli uomini, secondo le loro opere (Eb 11,6).

    L’impotenza di Gesù

    A salvare il Buon Ladrone non è però solo il sempre sano e basilare timor di Dio, ma la sua ben più profonda intuizione, per cui l’impotenza di Gesù a salvarsi con le proprie mani, e a sottrarre i compagni di sventura dalla stessa croce, non soltanto non contraddice alla sua messianità, ma ne dispiega invero la forma più propria. L’innocenza di quel giusto, pretendente messianico e comunque immeritatamente sofferente, rientra nella sua stessa regalità, la cui potenza va oltre la morte, perché capace di invocare perdono per i carnefici. Gesù dispone di un regno, quello promesso agli apostoli durante l’ultima cena (22,28-30), cioè di una signoria e libertà che, nel segno del servizio (22,24-27), cominciano a manifestarsi appieno dallo stesso patibolo, da Gesù trasformato in trono di filiale misericordia: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!» (23,34).

    Nel Gesù ingiustamente assimilato a loro malfattori, e nonostante tutto magnanimo coi suoi nemici, il Buon Ladrone riconosce quel Messia rifiutato sofferente che potrà forse ricordarsi anche di un delinquente, quando, proprio con questa sua morte vergognosa, si insedierà nella pienezza della sua condizione regale (cfr. At3,21). Per lui Gesù appeso al legno è il re messia che sta per entrare (o venire) nel suo regno (il che corrisponde a entrare nella gloria: 24,26). Colui che non ha fatto nulla di male, di fuori-posto, paradossalmente, sulla croce sta perfettamente al suo posto, anzi lo sarà ancora meglio quando verrà nel suo regno.

    Già dalla croce il Ladrone penitente confida anticipatamente nel destino di gloria di Gesù, capisce fin d’ora in tempo reale quel che i discepoli di Emmaus, sciocchi e tardi di cuore verso la parola dei profeti (24,25), nemmeno lontanamente riescono a presentire in tutte le loro discussioni lungo la via, finché Gesù risorto, non senza un certo qual dispendio di tempo, non ne abbia riscaldato il cuore e guarito gli occhi. La sua intuizione illetterata sa andare dritta al nucleo incandescente delle Scritture, intuendo la logica (il famoso e ripetuto dei: 9,22; 17.25; 24,5-8.26.44) intrinseca alla sequenza sofferenza/gloria, morte/risurrezione (logica che soggiace ai molti incontri di Gesù nel vangelo: cfr. 2,49; 4,43; 15,32; 19,5).  Per il Ladrone ormai «la sofferenza e morte di Gesù fa parte della definizione stessa del Messia» (G. Rosse). A questo punto il Ladrone è confessore e annunciatore, prima di essere discepolo 4.

    La croce di Gesù è luogo di scambio e di proporzionamento salvifico tra la sofferenza per una pena meritata (in quel supplizio tanto atroce comunque eccessiva) in ragion di effettive colpe commesse, e quella cristologica, essa sì totalmente in eccesso, esuberante di speciale scandalo in ragione dell’innocenza e della messianità, e, proprio come tale, salvifica. In Gesù, giusto sofferente e messia crocifisso, si apre una via per chiunque soffre crudelmente: per quanti soffrono «a ragione» (nonostante l’esasperazione), come pure per chi come Gesù stesso, pur non avendo fatto nulla di «fuori luogo» (atopon), patisce tutto l’assurdo della volontà di male.

    La supplica di salvezza

    Contro il sarcasmo ribelle e incredulo della coscienza impenitente, la parte sana della coscienza, toccata dalla conversione, fa partire un’energica confutazione, che apre la strada a una vera e propria supplica di salvezza.

    A ben vedere, la parola del Ladrone penitente è scandita conformemente al linguaggio e allo stile che sarà più tardi dei Padri del deserto: un’energica contestazione (antirretico) contro la precedente parola, stolta e blasfema, senza timor di Dio, seguita da un’intensa invocazione del nome salvifico di Gesù, riconosciuto Signore in procinto di instaurare un proprio regno.

    La prima fornisce il presupposto, la piattaforma di partenza. Ma solo la seconda offre la vera chiave di volta di questo incontro straordinario. Questa è appunto l’invocazione, diretta e confidente del nome di Gesù quale primitiva esperienza salvifica, quell’unico nome dato agli uomini sotto il ciclo attraverso cui avere salvezza (At4,l2), il nome dell’obbediente capace infine di ricevere universale obbedienza, di far piegare ogni ginocchio e sciogliere ogni lingua a gloria di Dio Padre (Fz/2,5-11). Una sola invocazione, ma insistente, ribattuta come un chiodo che deve conficcarsi in profondo: una preghiera ripetuta cento volte come quelle stessa di Gesù («e diceva: …»: 23,34.42).

    «Ricordati di me!» è formula biblica ben nota, che richiama l’accorata supplica di Ezechia: Ricordati Signore, che ho camminato davanti a Te…! (Ez 38,3; 2 Re 20,3), e quella dei salmisti: Signore, non ricordarti dei peccati della mia giovinezza! Ricordati di me nella tua misericordia, per la tua bontà! (Sal 25,7). Ma qui l’invocazione suona con accenti ancor più poveri. Nel regno imminente di Gesù c’è spazio per essere ricordati, perdonati. A differenza del suo compare, il Buon Ladrone ha evidentemente apprezzato il perdono invocato da Gesù sui suoi nemici e carnefici, che «non sanno (nel senso di: non vogliono sapere) quello che fanno». Potrà aver ragionato più o meno così: «Se quest’innocente invoca perdono per quanti sono colpevoli contro di lui, allora potrà farlo anche per me, una volta investito di tutta la sua potenza regale! Sì, Gesù: se tu invochi il Padre per i tuoi nemici, allora, posso invocarti anch’io, malfattore concrocifisso con te! Proprio perché perdoni loro, allora puoi salvare anche noi!».

    La lapidaria risposta di Gesù regala una garanzia di forza inaudita. Introducendola con il suo abituale Amen, in verità, io dico a te:…, egli impegna per il proprio interlocutore tutta la fides/fidelitas filiale di cui è dotato: non a caso due parole rivolte al Padre incorniciano quelle rivolte al Ladrone, sicché tra il «Padre, perdona loro» e il «Padre, mi affido a te»: 23,34.46, si incunea la promessa: tu, oggi, con me in paradiso!

    Il Buon Ladrone non sarà semplicemente «ricordato», ma addirittura subito sarà con Gesù (cfr. 22,28-30) nel luogo escatologico che, come già il giardino edenico, Dio prepara per i suoi santi, per i giusti. Notare l’escatologia quanto mai relazionale e personalizzata: «con me, cioè in paradiso». Conviene qui un senso epesegetico, per cui il paradiso coincide con Cristo in persona; ed essere in paradiso altro non sarà che essere con Cristo morto e risorto (come ripeterà Paolo). Un’escatologia a modo suo più che urgente: «oggi» – quell’oggi assai caro a Luca, che qui spicca in termini straordinari per l’anticipazione mozzafiato dell’escatologia.

    I Padri del Deserto guardavano al Buon Ladrone come a una figura assolutamente autorevole, tra i migliori modelli di fede che salva. Le loro testimonianze meritano attenzione: II Ladrone penitente «pendeva dalla croce e fu giustificato da una sola parola»5. «La tua supplica sia assolutamente semplice, poiché con una sola parola il pubblicano e il figliuol prodigo si riconciliarono con Dio. […] Una sola parola del pubblicano placò Dio, e una sola parola piena di fede salvò il ladrone»6 .

    «Un anziano disse: “Spesso l’umiltà ha salvato molti senza fatica. Lo attestano il pubblicano (Lc 18,9-14) e il figliuol prodigo (Lc 15,11-32), che dissero soltanto poche parole, e furono salvati“»7 .

    «Un tale disse al Padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cicli. Lo erediteremo infine?” E l’anziano rispose: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto (Gai 4,26), iscritta nei cicli (Eb 12,23). Colui che ha promesso è fedele (Eb 10,23), perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, paziente come Giobbe, umile come Davide, mite come Mosè, santo come Aronne, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo, come il Ladrone, che Colui che per sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli»8.

    L’istanza della gratuità è fatta prevalere sulla fatica delle opere, pure così importante per gli asceti, anzi per chiunque prenda sul serio la vita cristiana. In effetti, dalla fatica delle opere non si potrà essere esentati, e anche questa è l’altra faccia della grazia: Ai peccatori che si pentono, come alla Peccatrice, al Ladrone, al Pubblicano, il Signore perdona tutto il debito. Ma ai giusti chiede anche gli interessi. Ecco cosa significa ciò che disse agli apostoli: “Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli scribi, non entrerete nel regno dei cicli” (Mt 5,20)»9.

    Gesù crocifisso occupa il nostro posto di peccatori, muore pro nobis, cioè a nostro favore, a causa nostra, e al nostro posto. Non però per sostituirci. Ma perché in lui e con lui crocifisso e risorto, ritroviamo il nostro vero posto di figli, eredi della gloria.

    Note

    1 Così intitola uno schematico ma penetrante libretto postumo di P. Ledrus, Sj, ed. ADP, Roma 1982. Le citazioni dei Padri del Deserto sono tratte rispettivamente da L. Mortari (a cura di), Vita e detti dei Padri del Deserto/1 e 12, Città Nuova, Roma 1971, e da L. Cremaseli (a cura di), Detti inediti dei Padri del Deserto, Qiqayon, Bose 1986. Sul Buon Ladrone di Luca inoltre vedi P. Tremolada, «E fu annoverato fra gli iniqui». Prospettive di lettura della passione secondo Luca alla luce di Le 22,37 (Is 53,12d), (An Bi 137), Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 1997.

    2 P. Tremolada, «E fu annoverato fra gli iniqui», cit., p. 213, n. 125.

    3 P. Tremolada, «E fu annoverato tra gli iniqui», cit., p. 212.

    4 P. Ledrus, Alla scuola del ‘ladrone’ penitente, cit., p. 34.

    3 Xantia in L. Mortari, Vita e detti dei Padri del deserto, voi. II, cit., p. 70.

    6 Giovanni Climaco, Scala del Paradiso, XXVIII, pp. 188-189.

    7 Detti inediti dei Padri del Deserto, cit., n. 552, p. 219.

    8 Giovanni il Persiano, n. 4, p. 286.

    9 Epifanie di Cipro, n. 15, p. 187.

    Posted by attilio @ 17:17

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