• 04 Mar

    La discendenza:
    Prima soluzione umana alla promessa: l’adozione

    Gn 15,1-21

    di p. Attilio Franco Fabris

    Finora nulla è stato detto circa la promessa della discendenza. Eppure sembra essere la più urgente, perché il tempo passa e Abramo e Sara continuano ad invecchiare.

    Come vivono Abramo e Sara il ritardo dell’adempimento della promessa del figlio?

    Si rassegnano?

    Dubitano?

    Sono sulle spine?

    L’intervento divino è incerto: Quando? Come?

    Noi cosa faremmo?

    Non ci meraviglia il fatto che, ad un certo punto, decidano di ricorrere a soluzione loro che probabilmente, nel loro intento, serva a concretizzare la promessa.

    Il testo ci presenta il dialogo tra Jhwh e Abramo.


    Introduzione: v. 1

    “In seguito a questi debharìm…“.

    Dio risponde, in seguito alle parole/fatti di Abramo, come aveva già fatto dopo il patto con Lot, con un rinnovo delle promesse.

    Gli eventi fanno sì che la coscienza di Abramo si apra sempre più progressivamente all’ascolto della parola/promessa.

    Prima parte: vv.1-5

    La parola che il Signore rivolge ad Abram comprende tre elementi.

    –         “Non temere”: il figlio arriverà. E’ una formula che invita alla fiducia, ricorrente nei racconti di annunciazione.

    –         “Io sono il tuo scudo”: usa un’immagine militare. Abramo ha potuto costatare la vicinanza di Dio in battaglia (cfr 14,20). “Abram hai toccato con mano la mia vicinanza e il mio aiuto, come lo sono stato in passato lo sarò anche in futuro”.

    –         “la tua ricompensa (lett. la paga del soldato) sarà assai grande”: si tratta ancora di un’immagine militare. A lui che, dopo la battaglia, non volle nulla Dio vuole dare in risposta infinitamente di più. Ma che cosa? Questa “ricompensa” è assai vaga.

    La risposta di Abram si struttura attorno alla domanda che gli preme sul cuore, essa rivela come Abram non viva che per veder realizzato il sogno più grande. Ecco allora la domanda di Abramo: “Mio Signore, che cosa mi donerai, mentre io me ne vado spogliato (= senza figli)?”. In altre parole: “Signore che cosa mi puoi donare di tanto grande se  poi non ci sarà un figlio che continui la mia discendenza?”.

    Abramo avanza in questa direzione la sua proposta: Abramo e Sara vogliono adottare, secondo l’uso orientale, Eliezer il servo di Damasco come figlio ed erede. Infatti hanno aspettato l’adempimento della promessa. Essa non si è realizzata. Allora perché non cercare una soluzione? E’ ancora la paura che gioca nella coscienza di Abramo. Essa getta Abramo e Sara nell’agitazione di dover trovare ad ogni costo un espediente per affrettare la realizzazione della promessa.

    Abramo aggiunge a propria scusa, e con una sottile accusa, che tutto ciò è “colpa” di Dio il quale non ha mantenuto la sua promessa: “Vedi che a me non hai dato discendenza”. Abramo fatica, tentenna, si scontra con l’accettazione del kerigma. Non è come la prima volta che obbedisce subito, senza batter ciglio.

    Quali risonanze suscita questo atteggiamento di Abramo?

    La risposta di Jhwh è categorica: “Non costui… ma colui che uscirà dalle tue viscere” (cfr Natan e Davide 2Sam 7,12). L’impossibile è presentato un’altra volta come possibile. Invita poi Abramo a contemplare le stelle (desiderio=ad sidera), a contarle se gli riesce, cosa impossibile: “Tale sarà la tua discendenza”.

    La ricompensa “assai grande” ora è chiara: sarà una discendenza innumerevole (16,10; 32,13).

    Ma quale sperequazione tra la promessa solenne e maestosa e la realtà così povera e contraddittoria.


    Gli fu accreditato a giustizia: v. 6

    Dopo la parola di Jhwh, Abramo tace.

    Che valore attribuire a questo silenzio?

    Dubbio, speranza, incertezza, abbandono fiducioso…?

    Il nostro redattore lo interpreta come un consegnarsi incondizionatamente alla promessa.

    Infatti a questo punto fa una riflessione teologica di fondamentale importanza: “Egli credette al Signore che glielo accreditò a giustizia”.

    La forma verbale implica una continuità di atti di fede: “Egli continuò a credere“. Questo comporta che Abramo accolga con la massima fiducia la promessa, dandovi piena collaborazione.

    La storia di Israele dirà quanto ciò è difficile se non impossibile per i suoi discendenti e per tutti noi (cfr Es 4,8; Dt 1,32; 9,23).

    Abramo ne è stato capace, potendo così divenire ed essere presentato come “padre dei credenti”.

    Dio riconosce il merito di questa fede. “Glielo accreditò a giustizia”.

    Abramo è convinto della Parola del Signore e del suo contenuto reale anche se ancora invisibile e senza una scadenza precisa nel tempo: Abramo decide ancora una volta tutta la sua vita giocandosi unicamente sulla fiducia data alla Parola. “La fede di Abramo è la fiducia in una promessa umanamente irrealizzabile. Dio gli riconosce il merito di quest’atto (Dt 24,13; Sal 106,31). Lo mette in conto alla sua giustizia, essendo, il “giusto”, l’uomo la cui rettitudine e sottomissione rendono gradito a Dio” (nota Bibbia Gerus.).

    Il verbo has’av può essere tradotto in vari modi: si potrebbe tradurre anche in parafrasi con: “e il Signore si prese a cuore di lui con amore”, vincolandolo sempre più a sé. In base a ciò Abramo è s’addìq, giusto, cioè amico di Dio, colui che da Dio ha ricevuto la piena misericordia: ed è a questo titolo che la tradizione islamica si rifà particolarmente.

    San Paolo si fonda su questo versetto per dire che la giustificazione, davanti a Dio, è basata sulla fede e non sulle opere della legge (Rm 4). Tuttavia si fa notare come  la fede di Abramo lo porta ad opere giuste secondo il cuore di Dio (18,19). Per cui san Giacomo può basarsi su questo stesso versetto per dire che una fede senza le opere è morta (Gc 2,14-26).

    Fede e opere: in quale rapporto sono nella nostra esperienza?


    L’alleanza: vv.7-21

    Questa sezione del brano inizia con un’autopresentazione da parte di Dio: “Io sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei”. Egli rimanda agli inizi della vicenda di Abramo, quando Terach con tutto il suo clan partì da Ur per dirigersi a Canaan. Nessuno sospettò che in quel momento vi fosse l’azione di Dio stesso che dirigeva la storia.

    Dopo aver invitato a considerare il passato, riconoscendovi la sua presenza e la sua azione, Dio invita ad aprirsi al futuro delle promesse: “per darti questo paese in possesso” (lett. in eredità). La discendenza innumerevole avrà infatti bisogno di una terra.

    Abramo reagisce come poco prima, con una domanda: “Signore mio Dio, come potrò conoscere che ne avrò il possesso (lett. che l’erediterò)?”. Come intendere tale domanda? Non esprime il dubbio, ma una richiesta di capire meglio le modalità con cui la parola potrà concretizzarsi. Abramo crede, ma vuole capire, conoscere, chiede informazioni, dei segni. Chiedere un segno è inaccettabile se questa richiesta è fatta da persona che manca di fede e cerca una prova (cfr Es 17,2.7; Dt 6,16). Ma questa richiesta è accettabile se viene fatta da un credente, il segno allora non giunge come prova ma come conferma (cfr Gdc 6,17-18; Is 38,7-8.22). Sarà questa la differenza tra la domanda incredula di un segno da parte di Zaccaria e la domanda fiduciosa di Maria.

    Il segno che Jhwh offre è una solenne alleanza con Abramo (cfr Es 6,6-8).

    Dio chiede ad Abramo di approntare il necessario per stipulare il rito di alleanza. Si tratta di spaccare alcuni animali in due. In un rituale di alleanza bilaterale i due contraenti passano poi in mezzo alle parti divise invocando su di sé la stessa sorte riservata agli animali, nel caso si mostrino infedeli al patto.

    Qui il testo annota la presenza di un rapace, rappresenta una minaccia: “l’uccello rapace calò sui pezzi”. “Abram lo scacciò”. La minaccia viene allontanata. Di quale minaccia si tratta? Si tratta di eliminare tutti gli elementi (come il servo Eliezer) che potrebbero frapporsi alla realizzazione della promessa.

    Si passa poi a descrivere il “sonno”, l'”oscuro terrore”, la “grande tenebra”: sono tutti elementi che si riassumono in ciò che è definito nel “timore del Signore”. Un timore che non è paura di Dio, il termine non ha biblicamente un’accezione negativa, ma positiva: è il rispetto, l’adorazione, la consapevolezza della trascendenza.

    Segue la profezia da parte di Jhwh: viene rinnovata la promessa di una discendenza e della terra ma  si aggiunge che questa discendenza dimorerà schiava lontano dalla terra, dopo ne uscirà per riprendere possesso della terra. La storia che Dio ha fatto percorrere ad Abramo prefigura la storia della sua stessa discendenza. Ma l’esperienza d’Israele che esce dall’Egitto sarà a sua volta quella di una nuova generazione che uscirà da Babilonia al ritorno dall’esilio. La storia deve ripetersi generazione in generazione. Uscita – esodo – pasqua: sono passaggi obbligatori.

    Perché vi è la necessità di ripercorrere queste uscite (=pasque)?

    Dopo la profezia si passa al rituale vero e proprio. La parola proclamata ha rivelato il significato di ciò che sta per accadere ora.

    Fumo e fuoco sono simboli che manifestano la presenza di Dio. Dio passa attraverso gli animali squartati. Stipula in tal modo, solennemente, l’alleanza.

    Ma il presente rituale contiene un’anomalia: esso non è bilaterale. Chi passa è solo Jhwh. Abramo sta fermo, il contratto non gli impone alcun obbligo. Dio solo si impegna nei confronti di Abramo: “In quel giorno il Signore tagliò il patto con Abram”.

    L’iniziativa spetta solo a Dio. E’ lui che si impegna nei confronti di Abramo e non viceversa. Ancora una gratuità sconcertante per l’uomo che vorrebbe rivaleggiare con Dio.

    La discendenza non sarà dunque frutto di una espedienti umani come Abramo e Sara stavano per fare, ma sarà dono di Dio. Dio non si limita qui a prometterlo, ma s’impegna solennemente con un patto.

    Una allenza tra Dio e l’uomo nella quale Dio non domanda nulla se non di affidarsi alla sua parola: che risonanze suscita?

    Posted by attilio @ 11:54

Leave a Comment

Please note: Comment moderation is enabled and may delay your comment. There is no need to resubmit your comment.