• 07 Mar

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    PASSAGGIO DALL’EGOISMO ALL’AMORE

     

     Il progetto di Dio sull’uomo è di farlo entrare in comunione con lui, nella dignità di figlio nel Figlio:
    Benedetto sia Dio
    Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
    che ci ha benedetti
    con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo.
    In Lui ci ha scelti
    prima della creazione del mondo
    per trovarci al suo cospetto
    santi e immacolati nell’amore.
    Ci ha predestinati
    ad essere suoi figli adottivi
    per opera di Gesù Cristo,
    secondo il beneplacito del suo volere (Ef 1,3ss).
    Questa scelta e predestinazione è preannunciata già nel racconto della creazione allorché JHWH crea l’uomo “a sua immagine e somiglianza” (Gn 1,26). Ciò implica una partecipazione alla vita divina.
    Il peccato ha rotto, e rompe questo progetto di Dio, e l’immagine ne è continuamente infranta e deturpata. L’uomo infrange l’immagine e la somiglianza divine quando vuole costituirsi lui stesso Dio, origine di se stesso. Il peccato è distacco da Dio, fonte dell’esistenza e della grazia.
    La partecipazione alla natura divina pur non potendo mai essere interrotta, viene tuttavia in qualche modo bloccata, inespressa, mortificata, e ciò a scapito della crescita non solo umana bensì anche spirituale.
    Il cammino spirituale, l’ascesi, è lo sforzo umano unito alla forza dello Spirito per ristabilire l’ordine originale. Far riemergere quella “immagine e quella somiglianza” tante volte deturpata in noi dal peccato.
    I mezzi che la tradizione spirituale e biblica ha sempre indicato consistono in sintesi nella parola “conversione”.
    Potremmo definire la conversione come il ristabilimento dell’ordine naturale iniziale stabilito da Dio per l’uomo.
    Convertirsi equivale a rettificare.
    Conversione indica il ritorno: un ritorno che comporta un avanzamento dell’uomo verso Dio.
    Si tratta di un incessante passaggio pasquale dalle strutture di morte dell’uomo vecchio, alle strutture dell’uomo nuovo, creato ad immagine di Cristo:
    “Dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,22-23).
    Questo rivestirsi dell’uomo nuovo, anche se sacramentalmente si è attuato in germe nel nostro battesimo, deve essere attuato continuamente nella nostra vita.
    Nei detti dei padri più di una volta ricorre l’ammonimento: “C’è una voce che grida all’uomo fino al suo ultimo respiro: Oggi convertiti!”.
    Se ora ci domandiamo in che direzione deve muoversi questa nostra rettificazione, la risposta è molto precisa: si tratta del cammino percorso da Gesù, quello della carità perché Dio è amore:
    Carissimi amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore (1Gv 4,7).
    L’amare è proprio dei figli di Dio perché è proprio di Dio:
    Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore: chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui  (1Gv 4,16).
    Ancora la parola ci indica un piano più concreto con cui attuare il comandamento: è il discorso della montagna.
    Ogni beatitudine è via di liberazione dall’egoismo e dalla violenza verso l’amore.
    Ogni esigenza o presunzione idolatrica dell’io vi è rifiutata: le energie purificate vengono utilizzate al servizio dell’amore, un amore sempre più esigente: superamento della legge del taglione, necessità dell’amore per un retto culto, l’amore per i nemici…
    La vera penitenza-conversione è un incessante “passaggio” dall’egoismo all’amore.
    Questo amore che per noi cristiani è comandamento, di fronte al quale non può esistere scelta ma aut-aut: amore o odio.
    Il comandamento ci evita di intendere l’amore come sentimento emotivamente instabile, esso nasce dalla volontà dell’essere fedeli alla parola.
    In questo senso è possibile ricavare l’asserzione che la nostra capacità di amare è l’unica verifica e la migliore espressione del nostro cammino spirituale.
    Un amore che non è possessivo, ma è fatto di rispetto, servizio, affetto disinteressato che non esige di essere ricambiato, fatto di com-passione. Un amore aperto al mistero dell’altro, alla sua interiorità profonda quanto la mia, ma differente e voluta tale da Dio.
    Gesù richiama e invita i discepoli a questo “passaggio” di morte-risurrezione, in vista della liberazione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12,24-26).
    Gesù chiaramente ci propone un programma esigente (=morire), capovolgente (=essere servo).
    Per vivere bisogna morire come il chicco di grano. La croce è via obbligata per la risurrezione, esse sono inseparabili. Il risorto mantiene nella gloria quelle piaghe gloriose della crocifissione, non le ha cancellate. 

    MORTIFICAZIONE

     La conversione implica la cosiddetta mortificazione. Dunque non si equivalgono ma una è complementare all’altra.
    Non vi può essere conversione senza mortificazione, né la mortificazione avrebbe alcun senso se non in rapporto con la conversione.
    Oggi la parola mortificazione è caduta in disuso ed appare quanto mai sospetta.
    In una società dettata dalla logica del consumismo parlare di “rinuncia” appare se non assurdo almeno un non senso.
    In campo spirituale la mortificazione, la rinuncia a determinate realtà di per sé buone sono l’affermazione concreta che facciamo anzitutto a noi stessi, della grande stima in cui teniamo e viviamo i valori spirituali nel loro rapporto con gli altri.
    Essi vengono posti al primo posto. Sono i più importanti.
    In ogni mortificazione prendiamo posizione in favore della preminenza di tali valori, su quelli che possono essere i bisogni immediati dell’esistenza.
    Si può rinunciare positivamente a qualcosa solo per amore, gli altri motivi indicherebbero realtà più o meno problematiche o addirittura patologiche.
    Nell’amore la privazione apporta un senso di completezza, infatti più compensazioni e gratificazioni infantili ci concediamo più ci sentiremo vuoti e insoddisfatti. Uno sguardo attorno a noi (e in noi): mai come oggi abbiamo tante soddisfazioni, non ci manca nulla e nello stesso tempo quanto ci si sente insoddisfatti, vuoti con un senso di amarezza e insoddisfazione.
    Un pozzo infinito non si può riempire di cose finite, solo l’infinito lo può riempire! Così è il nostro cuore. “Solo Dio basta” ammonisce santa Teresa d’Avila.
    Dobbiamo “allenarci” all’amore (l'”arte di amare”) e ciò avviene attraverso forme di rinuncia volontaria,, esercizi di amore oblativo.
    Solo in quest’ottica la mortificazione non può identificarsi con forme sottili di masochismo, o altro…
    Scriveva Cassiano nelle sue Conferenze: “Niente ci gioverà una rinuncia soltanto carnale e locale, somigliante alla partenza degli Ebrei dall’Egitto. Quella che conta è la rinuncia del cuore: quella sola è sublime e utile”

    SOSTITUZIONE O SOLIDARIETA’

     Il tema della mortificazione si collega al tema della sofferenza. Rimane pur sempre vero tuttavia che il dolore, soprattutto innocente, può essere una grande ostacolo per la fede, come può divenire al contrario il trampolino di lancio. Perché il male? Perché la sofferenza? Perché il dolore dei buoni, dei semplici? Perché la sofferenza dei bambini?
    A volte ci rendiamo conto dell’esistenza di persone che si direbbero nate per soffrire, e nei modi più disparati fisicamente e psichicamente. Entriamo in quel delicatissimo e misterioso tema dell’espiazione.
    La  potremmo intendere e cercare di capire alla luce della vocazione-necessità della solidarietà profonda, misteriosa, ma concreta, con una umanità che soffre e che è peccatrice.
    L’espiazione è il mistero di comunione che lega tutti gli esseri tra loro.
    La figura del Servo di JHWH è quanto mai significazione della solidarietà che lega l’uomo, ogni uomo, all’altro, nel bene e nel male:
    Uomo dei dolori che ben conosce il dolore… egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe noi siamo guariti” (Is 53,4-5).
    La sofferenza del servo è vicaria, espiatrice. Acquista un senso anche se difficilissimo da comprendere e accogliere: “E’ così misterioso il paese delle lacrime” (A. De S: Exupey).
    Potremmo qui affermare che è tragico soffrire, ma è disperazione e angoscia ancor maggiore soffrire senza un significato.
    Il riuscire a dare un senso, un perché al dolore fa’ sì che a questi venga tolto il suo veleno mortifero e amaro.
    Il soffrire inevitabile, simile a quello del Servo schiacciato, abbattuto può allora trasformarsi in chiamata, appello ad una missione trascendente e redentrice.
    Sarebbe spontaneo allora a questo punto domandarsi se non sia una ingiustizia che alcuni debbano soffrire al posto di altri, o almeno molto più di tanti altri.
    Tentiamo, in punta di piedi e tentennando nel buio, di cercare una possibile risposta.
    Dio cerca sempre la collaborazione dell’uomo per la sua opera salvifica (“completo nella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo“: afferma san Paolo), occorre stabilire un equilibrio tra profitti e perdite, tra bene e male.
    All’interno dell’umanità non siamo dei semplici soci, bensì membra gli uni degli altri di un unico corpo:
    “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme: e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” 1Cor 12,26-27.
    Esiste nella Chiesa e di riflesso nel mondo una intercomunicazione di bene e di male (il mio peccato non riguarda mai solo me e Dio) di salute e di infermità, di grazia (“Cerca la pace interiore e migliaia troveranno salvezza in te: ammoniva san Serafino di Sarov).
    Non è indifferente perciò che io sia santo o peccatore… La mia indifferenza, il mio peccato ricade oltre che su di me, sempre sugli altri, su qualche innocente “chiamato” a compensare la mia perdita.
    Una forte coscienza ecclesiale ha potuto formare santi che si sono offerti “vittime”.
    Nella vita di san Domenico del XIII sec. Si legge: “Dio gli aveva dato una grazia speciale per i peccatori, i poveri, gli afflitti. Egli portava i loro dolori nel santuario intimo della sua compassione e le lacrime che gli uscivano gorgogliando dagli occhi manifestavano l’ardore del sentimento che divorava il suo cuore. Egli pensava che sarebbe stato veramente membro di Cristo soltanto quel giorno in cui avrebbe potuto offrirsi interamente, con tutte le sue forze, per conquistare il mondo” (Cronache domenicane).
    Ai nostri giorni insieme a tanti testimoni troviamo ad esempio il beato Luigi Orione il quale scriveva: “La perfetta letizia non può essere che nella perfetta donazione(=sacrificio) di sé a Dio e agli uomini, a tutti gli uomini, ai più miseri come ai più fisicamente, moralmente deformi, ai più lontani, ai più colpevoli, ai più avversi. Ponimi, Signore, sulla bocca dell’inferno perché io, per la misericordia tua, la chiuda. Che il mio segreto martirio per la salvezza delle anime, di tutte le anime, sia il mio paradiso e la suprema beatitudine. Amore delle anime, anime, anime. Scriverò la mia vita con le lacrime e con il sangue”.
    E’ forse questo l’atteggiamento più vero da assumere quando domandiamo a Cristo sacerdote di rendere il nostro cuore simile al suo: sacerdotale, sacrificio, offerta, espiazione per  il mondo intero.
    E’ una preghiera terribilmente esigente, da vertigini!
    Forse spesso non ce ne rendiamo conto, e ci accontentiamo di annacquare il tutto fino al renderlo insipido.

    sintesi di: I. Larranaga, Mostrami il tuo volto

    Posted by attilio @ 09:56

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