• 08 Mar

    Esci dalla tua terra e va!

    Lectio di Gn 12,1-10

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    Invochiamo all’inizio di questo tempo dedicato all’ascolto lo Spirito affinché pieghi con il suo soffio potente il nostro cuore alla docilità nei confronti della Parola. Si realizzi nella nostra vita l’esperienza del Servo di Jhwh che prega: “Ogni mattina fa attento il mio orecchio, perché io ascolti come gli iniziati” (Is 50,4).
    Solo da questo ascolto docile “da iniziati” al mistero può scaturire l’obbedienza autentica alla volontà di Dio.
    Si tratta di una docilità non facile perché il cuore dell’uomo è duro, ribelle. Il profeta Isaia dirà: “Questo è un popolo ribelle, sono figli bugiardi, figli che non vogliono ascoltare la legge del Signore” (33,19). Noi per paura e diffidenza facciamo resistenza alla Parola e si comprende la necessità dell’azione stessa del Signore perché è solo in lui in grado di pronunciare l'”effatà”, ovvero la parola capace di vincere la nostra sordità: “Il Signore mi ha aperto (=forato) l’orecchio e io non ho opposto resistenza e non mi sono tirato indietro” (Is 50,5). Ecco perché con insistenza e fiducia preghiamo lo Spirito, il suo soffio perché “pieghi ciò che è rigido“.
    Signore, la tua Parola che oggi ci farai udire resti in noi sempre presente e operante. Continua a farla risuonare al nostro orecchio, fora la nostra sordità: “Piega il nostro cuore verso i tuoi insegnamenti” (Sal 118,36).
    La Parola che ora depositerai in noi come seme di vita, non permettere che rimbalzi drammaticamente contro il muro della nostra sordità. Che il nostro ascolto ci renda capaci di vera obbedienza.

    Lectio

    La lettura biblica con cui vogliamo meditare il tema dell’obbedienza è un testo caro alla tradizione e alla spiritualità della vita consacrata: si tratta dell’ormai “classico” racconto della vocazione di Abramo (Gn 12,1-9). Siamo infatti sempre stati invitati a meditare sulla straordinaria obbedienza del nostro “padre nella fede” (cfr Rm 4,11) alla chiamata di Dio. Ma la domanda che vorremmo oggi rivolgere al nostro vecchio patriarca è questa: Abramo in virtù di chi e di che cosa sei giunto a quest’atto di coraggiosa e totale obbedienza alla voce di Dio?
    Per rispondere a tale domanda occorre partire un po’ prima, ovvero da quello che potremmo definire il “presupposto antropologico” in cui la Parola si fa udire alla coscienza di Abramo. Egli è un uomo che ha un estremo bisogno di una parola di speranza. La sua vita umanamente è un fallimento, infatti è senza futuro e non può assicurare né a sé e tanto meno agli altri la speranza di una continuità. È impantanato in un vicolo cieco che lo conduce ad una sempre più dolorosa esperienza di morte contrassegnata dalla sua sterilità.
    Dio disse ad Abramo” (Gn 12,1): il racconto comincia con una parola di Dio che assomiglia molto alla prima parola del Genesi: “In principio… Dio disse…” (cfr Gn 1,1ss) . Questo lascia intuire che la chiamata di Abramo ha nella storia della salvezza la valenza di una nuova creazione, di una rinnovata benedizione in vista della vita e della fecondità per cui Dio ha creato l’uomo (Gn 1,28).
    Non solo Abramo ma tutta l’umanità, ha bisogno di un rilancio della creazione e della benedizione dopo che il peccato con la sua maledizione aveva trascinato con sé ogni cosa nel vortice del nulla e della morte.
    Questa parola di speranza da parte di Dio ad Abramo è il cuore del racconto. Il centro del discorso di Dio ad Abramo non è il comando “parti e lascia”, ma un altro. Solo alla luce di una speranza che scaturisce da una parola che è promessa si può giustificare e capire il comando di “partire e lasciare”.
    In altre parole: il comando che esige obbedienza (v. 1) è sostenuto e giustificato dalle tre straordinarie (e umanamente impossibili) promesse (vv. 2-3). Queste rappresentano la “Buona Notizia” donata al vecchio e disperato Abramo. Esse sono complementari l’una all’altra: anzitutto Dio promette che farà di Abramo una grande nazione, il che significa che avrà una discendenza. “cosicché io faccia di te una grande nazione” numerosa “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sulla spiaggia del mare“. Questa numerosissima discendenza avrà pur bisogno di una terra grande e fertile; ecco allora la seconda promessa che assicura “un paese“. Infine – e questa è la promessa più grande e importante – Abramo diverrà “benedizione per tutte le nazioni della terra“. Egli è chiamato a divenire, proprio in forza delle promesse, segno e portatore di speranza-salvezza per tutti i popoli.
    L’obbedienza richiesta ad Abramo certo comporta delle esigenze. Le esigenze sono pesanti e “dolorose”: Dio infatti enumera tutto ciò che Abramo è invitato a lasciare, e si tratta di una sequenza che segue, in ordine psicologico, dal  più facile al più difficile: la patria, la propria cultura, la propria parentela. Per un nomade è facile lasciare la terra, ne è abituato. Più difficile abbandonare il proprio clan, la propria famiglia. Lasciare la casa del proprio padre è abbandonare ogni riferimento culturale, è lasciare le proprie radici.
    Queste fratture sono inevitabili se Abramo desidera superare i punti morti e stagnanti della sua vita. Ma questi distacchi “obedienziali” di Abramo sono sostenuti e motivati solo dalla fiducia accordata alla parola udita. Senza la docilità alla parola-promessa in Abramo non scaturirebbe alcuna obbedienza di fede!
    Questa risposta-obbedienza di Abramo sarà stata semplice ed immediata, avrà faticato a porsi in questa obbedienza? Pensiamo che Abramo ha settantacinque anni. E’ un’età non sicuramente ideale per iniziare una nuova vita, per dare una svolta alla propria esistenza. Oggettivamente nel momento in cui Abramo parte mutando radicalmente vita, le probabilità che si realizzino le promesse di Jhwh sono praticamente nulle. Tutte le circostanze sembrano “ragionevolmente” contrarie al contenuto delle promesse, e rendono umanamente insensata la sua obbedienza.
    La grandezza delle fede di Abramo sta proprio in questo ascolto che si fa obbedienza nei confronti di una Parola di speranza “impossibile”: “Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18).
    Solo la promessa possiede la forza capace di mettere in moto il nostro settantenne Abramo. La sua obbedienza si è strutturata unicamente sulla speranza scaturita dalla docilità offerta alla Parola ascoltata. 

    Meditatio

    Purtroppo (e indebitamente occorre dire!) nella predicazione e nella catechesi, si è insistito spesso solo sul comando del Signore dato ad Abramo di “partire e lasciare”, dando un po’ l’impressione e la sensazione all’ascoltatore di un Dio che col dito puntato obbliga il povero Abramo a cose impossibili e assurde in virtù unicamente della sua autorità. Ci si offre l’immagine di un povero Abramo che come un soldato reclutato a forza non può far altro che sottostare ad una sorta di “obbedienza “militare” che non si può minimamente discutere. Veniva così presentata sì l’obbedienza “eroica” di Abramo, ma di certo essa non aiutava ad amare di più un Dio così tremendamente esigente.
    Aver insistito in questa linea ha travisato molto e  tragicamente la ricchezza della teologia della rivelazione biblica contenuta nel brano. Di conseguenza anche le applicazioni che del testo si sono fatte in riferimento alla vita del credente erano povere spiritualmente e pervase più che altro da un sterile volontarismo.
    Il “devi partire e lasciare” è risuonato continuamente negli ambienti di convento, nelle volte delle chiese, nelle aule buie di catechismo. Un “devi” che piombava pesantemente dall’alto domandando un’obbedienza indiscussa, e non bastasse, il più delle volte accompagnata dalla prospettiva di fiamme nel caso di “diserzione”. L’obbedienza così andava spavaldamente a braccetto con la paura.
    Il racconto della vocazione di Abramo ha molto da insegnare al fine di correggere l’infausta lettura che da più parti si è fatta della vocazione di Abramo e dell’obbedienza.
    L’obbedienza che scaturisce dalla fede biblica non ha nulla a che vedere con un’obbedienza di tipo disciplinare: quest’ultima ha come punti di riferimento dei comandi impartiti e un’autorità con il potere di comandare. L’obbedienza di Abramo, quella biblica per intenderci, si inscrive invece in tutt’altra categoria: quella della “docilità”. Tale categoria fa riferimento non alla sfera gerarchica ma affettiva. Essa non nasce dall’imposizione dell’altro, ma dalla fiducia accordata all’altro.
    Si tratta di una fiducia-obbedienza che trova radice nell’ascolto. Non per nulla anche la stessa etimologia della parola “obbedienza” è significativa. Essa deriva dal latino ob-audio, che è un composto di audio (= udire, ascoltare). Questo ci mette nella giusta direzione circa una corretta comprensione e prassi dell’obbedienza della fede: fondamento dell’obbedienza del credente non sta il comando, ma l’ascolto! Dall’ascolto scaturisce la persuasione e dalla persuasione la docilità.  E finalmente dalla docilità si giunge all’obbedienza. Siamo ben lontani così da ogni ristretta interpretazione di carattere semplicemente disciplinare e moralistico!
    Ciò che sorregge l’obbedienza di Abramo non è perciò il comando impartito dall’ “autorità divina” ma al contrario è la docilità che egli accorda alla parola-buona notizia-promessa udita.
    Spesso la nostra interpretazione e prassi dell’obbedienza è purtroppo priva di questo elemento essenziale: poggia sul vuoto e cresce fra le spine velenose del “dovere morale” e sulla paura.
    Questo accade perché la nostra “obbedienza” non è preceduta dall’ascolto della “Buona Notizia”, ovvero della promessa di Dio capace di “far mettere ali” all’obbedienza.
    Ne consegue che un’obbedienza che non scaturisca dall’ascolto della Parola  diviene solo un peso insopportabile, ci spinge a tenerci stretta con mille piccoli e grandi espedienti la nostra “libertà”, a rischiare il meno possibile, a non giocarci fino in fondo nell’avventura della fede.
    Mentre è nell’ascolto che si fa obbedienza che si gioca l’autenticità della fede biblica. Scrive un famoso biblista: “La fede non è l’obbedienza, ne è il segreto; l’obbedienza è il segno ed il frutto della fede” (J. Guillet). E la fede nasce dall’ascolto (cfr Rm 10,17).
    Tutto dunque ci riporta a quel nocciolo di partenza al quale la Chiesa del terzo millennio è invitata pressantemente e urgentemente a tornare: ripartire dalla centralità dell’ascolto. 

    Oratio

    Abramo insegna: l’obbedienza prima che essere una virtù è un dono che scaturisce dall’ascolto della Parola che contiene in sé una promessa di vita.
    Solo l’ascolto attento renderà man mano il nostro cuore docile e verremo sospinti dall’amore a consegnarci liberamente al tuo disegno, o Padre, in un’offerta libera, gioiosa e generosa. Sapremo sempre più rinunciare ai nostri soliti innumerevoli calcoli e progetti, che scaturiscono dal nostro cuore di pietra e che appesantiscono tristemente la vita.
    Sappiamo come l’obbedienza che nasce dall’ascolto della Parola mediata dai nostri fratelli, comporti spesso una croce: il nostro cuore infatti è talmente lontano dal progetto che hai su di noi. Ma fa’ che non ci spaventiamo di questo ma che, con perseveranza e fiducia, impariamo ogni “mattino” a rimetterci in ascolto della tua parola “come gli iniziati”.
    Facci udire soprattutto, o Padre, Buona Notizia che è lo stesso Figlio tuo Crocifisso e Risorto. Sarà lui la speranza capace di strapparci come Abramo da tutti i “lacci di morte” (Sal 115,3) e a porci in cammino obbediente alla sua esigente sequela.
    Con Gesù e come Gesù impareremo ogni giorno a dire: “Ho detto: Ecco io vengo. Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere. Mio Dio questo io desidero, la tua parola è nel profondo del mio cuore” (Sal 40,7).

    Posted by attilio @ 15:49

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