• 06 Mar

    Rimase nel deserto per quaranta giorni

    Lectio di Marco 1,12-13

    di padre Attilio Franco Fabris  

    L’uomo contemporaneo frastornato, “sfilacciato” e disperso nel rumore e nell’anonimato della folla e delle nostre città, ha bisogno di riscoprire urgentemente il valore della solitudine come luogo, tempo, occasione e condizione per ritrovare se stesso e le radici della propria libertà.
    Risvegliare in sé stessi le domande più profonde, per nuovamente udire la voce della propria coscienza così mortificata nel ritmo esagitato e nel rumore che ci circonda è urgenza culturale e spirituale di rimordine.
    Abbiamo bisogno di riscoprire la solitudine affinché possa avvenire l’incontro col Mistero che ci circonda e che ci abita, e perché proprio nella solitudine l’uomo diviene più uomo: ovvero più capace di cogliere, percepire, il suo essere fatto per “altro” e per l'”Altro”.
    Chiediamo perciò ora allo Spirito che ci introduca, come Gesù, dolcemente e fortemente nel deserto per parlare al cuore di ciascuno di noi (cf Os 2,16).
    Vieni o Spirito che aleggiavi all’inizio della creazione sulla solitudine del cosmo per farvi sbocciare la vita. Scendi su di noi, sui nostri deserti bisognosi dell’acqua della vita che solo tu puoi far zampillare. Vieni, o Spirito che nel silenzio parlavi ai profeti ponendo sulle loro labbra parole di fuoco da annunciare ai fratelli. Vieni o Spirito di Gesù: tu lo conducesti nel deserto affinché come nuovo Adamo sperimentasse per noi vittorioso la prova e lì ci mostrasse la via della vera libertà. Vieni o Spirito di comunione che nel mistero della nostra solitudine ci apri al mistero dell’Altro.

    Lectio

    In Marco il brano che riporta la permanenza di Gesù nel deserto e le tentazioni da lui subite è, a differenza di Matteo e Luca, brevissimo. Pur lapidario esso è tuttavia di estrema importanza: infatti, unitamente alla scena del battessimo, si presenta come una sorta di prologo alla vita e alla missione di Gesù.
    Dopo il battesimo nelle acque del Giordano in cui Gesù è proclamato solennemente “Figlio prediletto” (Mc 1,11) la prima opera dello Spirito è trascinare questo “Figlio” non nelle piazze e strade affollate della Palestina ma nella solitudine del deserto. E’ lo Spirito, sottolinea Marco, che “conduce” (lett: trascina, sospinge, getta) Gesù nel deserto. Perché? Egli è “sospinto” a ripercorrere, condividere, l’esperienza di quel “figlio amato” che è il popolo di Israele (cfr Mt 2,15), il quale dopo il passaggio battesimale del Mar Rosso, fu condotto nel deserto del Sinai per quarant’anni. Gesù nella sua umanità ha bisogno di ripercorre e condividere le tappe del suo popolo, e in definitiva di tutta la storia di ogni uomo. Proprio nella solitudine del deserto egli può sperimentare, come Israele e Adamo, tutta la straordinaria libertà del suo essere “Figlio prediletto” rivelatogli nel battesimo al Giordano.
    L’evangelista annota che Gesù di Nazaret trascorse nel deserto “quaranta giorni”. Annotazione oltremodo precisa ma non da intendersi in senso strettamente cronologico ma simbolico. Il numero “quaranta” nella sacra scrittura è un’espressione tipica: Mosè rimane da solo sull’Oreb quaranta giorni (Es 34,28); quarant’anni Israele dimora nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra di Canaan; il profeta Elia compie in un momento difficile della sua missione un pellegrinaggio che comporta un cammino di quaranta giorni al monte santo di Dio (1Re 19,8)… Quale la cifra simbolica che occorre intravedere in questo numero? Esso sta ad indicare un tempo particolarmente importante, intenso e decisivo e nello stesso tempo richiama la durata di un’intera generazione.
    Che Gesù rimanga nel deserto “quaranta giorni” è dunque un messaggio attraverso il quale il testo biblico ci dice che dopo il battesimo Gesù visse nella solitudine un tempo importante e decisivo per la sua esperienza interiore e di missione, e che questo stesso “tempo” ed esperienza si estese poi a tutta la sua vita. Parafrasando un’espressione dell’ “Imitazione di Cristo” potremmo dire che “tutta la vita di Cristo fu tempo importante di deserto”.
    Nella solitudine Gesù è tentato da Satana. Letteralmente la parola “satana” deriva dall’aramaico e significa: “Colui che accusa – Colui che divide“. Satana è il Male che insinua nel cuore dell’uomo il sospetto e la diffidenza nei confronti di Dio al fine di separarlo da lui, di strapparlo dalla sorgente della vita sprofondandolo nella maledizione di una solitudine che è isolamento senza comunione.
    Il deserto è luogo di tentazione perché luogo in cui l’uomo sperimenta la libertà più grande, in cui è chiamato a scelte decisive nei riguardi della sua vita (cfr Sal 77,17; 105,19).
    Gesù nella sua umanità vive nella solitudine profonda (del deserto e successivamente del Getsemani: cfr Lc 4,13) la seduzione diabolica: alla sua coscienza umana si affacciano possibili vie alternative, altre possibilità di realizzazione della sua vita. Egli non è tentato nelle nostre piccole e grossolane tentazioni di ogni giorno, ma nella grande insinuazione di rifiutare, nella sua libertà di Figlio, il cammino messianico che il Padre gli propone che non è all’insegna della potenza, della gloria, del miracolo, ma dell’abbraccio scandaloso alla croce (cfr 8,31).
    Ma Gesù è il primo che nella solitudine in cui tutti caddero (Sal 77,40) esce vincitore, ossia pienamente confermato nella volontà del Padre che gli chiede di percorrere nella sua libertà di Figlio la via della piena condivisione e della solidarietà nei confronti dell’uomo peccatore.
    La scena finale presentata da Marco è emblematica. Gesù sta “con le fiere”. Se la presenza delle fiere nell’antico testamento sta a significare la presenza del male, ora la scena evangelica ci parla di Gesù che sovranamente siede “Signore” in mezzo alle animali selvaggi: nessun male ha potere su di lui. E’ chiaro che il testo vuol presentarci come realizzate in Gesù le promesse profetiche:Essi (gli angeli) ti porteranno sulla palma della mano, perché il tuo piede non inciampi in nessuna pietra. Tu camminerai sul leone e sulla vipera, schiaccerai il leoncello e il serpente” (Sal 91,12), e soprattutto realizzata la visione di Isaia a riguardo dei tempi del messia: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia, cintura dei suoi fianchi la fedeltà. Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi.” (Is 11,8-11; cfr 65,25).
    Gesù nel deserto, nuovo Eden,  appare come nuovo Adamo, il quale convive pacifico in mezzo alle fiere (cf Gn 2,19-20). Egli inoltre è “servito dagli angeli” nella sua dignità di Figlio: in lui terra e cielo finalmente si ricongiungono e rappacificano come nel disegno originario. Questo si realizza nella solitudine del deserto trasformato in paradiso. E’ qui che si inizia a ristabilire l’ordine originario della creazione. Farò scaturire fiumi su brulle colline, fontane in mezzo alle valli; cambierò il deserto in un lago d’acqua, la terra arida in sorgenti” (Is 41,18).
    Ora Gesù può uscire dalla solitudine, nuovo Adamo e nuovo Israele, per percorrere le strade della Galilea e Giudea annunciando il Regno di Dio in lui già pienamente realizzato (Lc 17,21). 

    Collatio

     Solitudine è una parola che può risvegliare dentro di noi risonanze contraddittorie. Della solitudine possiamo avere paura perché essa ci può sprofondare nell’angoscia dell’abbandono, ma possiamo anche ricercarla con appassionato desiderio, come condizione per riprendere contatto con le profondità che ci abitano. La solitudine è per l’uomo occasione per un incontro con sé stesso e col Mistero. Non per nulla è amata da tutte le grandi tradizioni religiose.
    Nella vita di ciascuno deve giungere il tempo di smettere di fuggire da se stessi accettando di entrare nell’esperienza stupenda e drammatica della solitudine insita al mistero dell’uomo. Solo qui finalmente ci troviamo faccia  faccia con noi stessi, senza falsi specchi che ci rinviano false e desiderate immagini. Qui si impara, talvolta drammaticamente, a conoscere la verità della vita, a discernere ciò che conta da ciò che non conta. Inevitabilmente si giunge alla solitudine, non fosse altro nell’ora dell’estrema solitudine che è la nostra malattia, insuccesso, abbandono, morte.
    Ma spesso l’uomo teme e fugge la solitudine, affannosamente vuol scomparire nel chiasso di una folla anonima, in nascondigli rumorosi e affollati: teme la solitudine perché essa è portatrice di temibili rivelazioni. Essa fa emergere paure, vuoti, conflitti che si vorrebbero mettere a tacere ad ogni costo. Il deserto smaschera i demoni che subdolamente abitano il fondo della nostra coscienza, porta allo scoperto la “grande tentazione” del “Satana” che si vorrebbe sempre insinuare negli anfratti nascosti della coscienza. Essere soli significa entrare in battaglia con i “nostri demoni”, prendere coscienza della propria libertà e responsabilità nei confronti della propria vita. La solitudine esige delle scelte in ordine alla direzione e al senso da imprimere alla propria esistenza.
    Nella solitudine siamo obbligati a scegliere continuamente tra la morte e la vita, tra il ripiegamento pauroso e l’aprirsi fiducioso alla promessa, perché essa ci pone in stato di perenne tensione, di cammino, ci costringe ad allargare l’orizzonte, a cercare sempre al di là. La solitudine contiene in sé una promessa di un tesoro che occorre scoprire ma che non è lì immediato, alla portata di mano, ma esige la pazienza, la libertà e la decisione di un faticoso cammino.
    Obiettivo dello spirito del male, padre di ogni menzogna e separazione, è quello di obbligarci per paura e comodità, a fuggire il deserto, a tornare indietro dalla solitudine, a non avanzare fidandoci solo della promessa contenuta nella Parola.
    La solitudine è prezioso tempo e luogo di grazia: “A dire il vero – scrive il teologo psicoterapeuta Eugen Drewermann – dal punto di vista psicologico non esiste forse niente di più augurabile che venire messi, ad un certo momento, di fronte a se stessi senza orpelli, ma non è una cosa che si può forzare. Si presenta quando è matura, e non siamo noi a recarci in questo genere di deserto, ma come dice Marco, in questi spazi decisivi dell’esistenza ci veniamo sospinti”.
    E un grande testimone della fecondità del deserto quale è stato Charles de Foucauld scriveva dalle infuocate distese di sabbia del Sahara: “Bisogna passare attraverso il deserto e dimorarvici per ricevere la grazia di Dio: è là che ci si svuota, che si scaccia da noi tutto ciò che non è Dio e che si vuota completamente questa piccola casa della nostra anima per lasciare il posto a Dio solo”.
    Di quale grazia si tratta? A chi, come Gesù, è dato di varcare le porte del silenzio e della solitudine per intraprendere il cammino della vita vi è una promessa: la solitudine del deserto può rifiorire come un nuovo Eden in cui le porte del Regno si spalancano. All’uomo è dato, in Cristo, di vivere già ora il Regno che è dono di pace e di comunione con se stesso, gli altri, la realtà, Dio. L’uomo può stare gioioso “tra le bestie” godendo del “servizio degli angeli”. 

    Oratio

     Signore, ti ringraziamo per il mistero dei tuoi quaranta giorni nel deserto.
    Ci consola il fatto che tu abbia voluto sperimentare e condividere la fatica della nostra libertà di figli.
    Tu conosci le nostre innumerevoli cadute nel duro cammino nel deserto della vita. Quante volte ne siamo fuggiti angosciati Conosci la paura che ci assale quando la vita ci chiede di incamminarci sulle sabbie del deserto e della solitudine: vorremmo fuggire lontano. Eppure tu ci rassicuri che non saremo mai soli. Nella bisaccia avremo sempre la Parola e il Pane: essi sono cibo, acqua, luce. Con questi tuoi doni possiamo attraversare ogni solitudine certi della promessa che proprio dove sembra assente la vita lì si spalanca per noi l’accesso al tuo Regno, a quell’Eden a cui il cuore sospira con nostalgia.

    Posted by attilio @ 18:02

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