• 15 Feb

    di p. Attilio F. Fabris 

     Lettura del testo

    v.11: “Un uomo”. E’ Dio. Egli è insieme padre e madre, legge e amore. Il nemico ce lo fa vedere solo come legge e identificare con la nostra coscienza che ci rimprovera. Per questo Gesù sottolinea le qualità materne “del Padre”.
    “Aveva due figli”. I “due” figli indicano la totalità degli uomini. Peccatori o giusti, per lui siamo sempre e solo figli. Per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati. Noi non sappiamo che lui ci è Padre e ignoriamo di essere fratelli se non per litigare sull’eredità. Lui invece sa che siamo suoi figli nel Figlio.

    v.12: “Padre”. Così lo chiama il minore. Non tanto per dei sentimenti positivi, quanto per far valere i propri diritti. Lo conosce come uno che gli deve dare delle cose: sente verso di lui un rapporto soffocante di dipendenza. Difatti, pur vivendo della sua eredità, si allontana da lui, perché lo sente come antagonista della sua libertà. E’ come Adamo.
    “La parte di sostanze che mi tocca”. Al minore, vivente il padre, spettava il possesso ma non l’uso e l’usufrutto, di un terzo del patrimonio liquido. Oltre ai soldi, che sono strumento, il figlio rivendica l’autonomia, una vita piena, che lasci ovunque i segni della propria gioia. Questo ci spetta, questa è la nostra parte (Sap 2,9)! I desideri profondi del cuore nostro vertono su ciò che Dio ha in proprio e di cui noi abbiamo bisogno. Da qui può nascere l’invidia e l’avversione a Dio come nostro antagonista.
    “Divise per loro la vita (i beni)”. Ma Dio non è antagonista. Concede ai suoi figli tutto quanto ha. Aveva anzi già dato ad Adamo quell’uguaglianza che lui poi volle rapirgli (Gn 1,27-3,5). Il peccato sta nel rubare ciò che è donato, nel possedere in proprio ciò che non può che essere dell’altro.
    Dio in realtà darà all’uomo non solo ciò che crede che gli spetti. Gli darà ben di più: la sua stessa vita, facendosi suo servo e schiavo. Per sé ogni dono, per quanto piccolo, è un segno di un’altra: il donarsi del donatore. Le richieste che i due figli fanno al Padre (sostanze e capretti) sono sempre piccole e meschine rispetto al dono che egli vuole fare:se stesso. 

    v.13: “Non molti giorni dopo”. E’ l’ansia di vivere, la fretta di godere! La nuova vita è breve; non c’è rimedio quando uno muore, e non si conosce nessuno che liberi dagli inferi (Sap 2,1).
    “Raccolto tutto”. Non lascia nulla di ciò che è suo. Si porta via tutto. Manca l’essenziale: l’amore del Padre del quale tutto è dono. Chi si allontana da Dio può ancora vivere dei suoi frutti: l’amore, la gioia, la giustizia, la pace, ma non per tanto! Estinto il capitale cessano anch’essi. Tramontato il sole, non tarda a venire la notte. L’abbandono del Padre porta presto alla carestia generale. Il nichilismo è l’erede naturale dell’ateismo!
    “Emigrò in un paese lontano” Le prime parole che Adamo rivolse a Dio sono: “Mi sono nascosto” (Gen. 3,9ss.). L’uomo, nella sua fuga, è andato in un paese lontano: lontano dal volto di Dio e dal proprio. Ma lontano da chi, lontano da dove, se Dio è ovunque e nel cuore di ognuno? Appunto, lontano da tutto e da sé. L’uomo è ovunque straniero, perché estraneo al suo volto.
    Là sperperò la sua sostanza”. Il figlio, lontano dal padre, perde la sua sostanza. Perde se stesso, il suo essere figlio. E’ un ruscello che si taglia fuori dalla sorgente da cui scaturisce.
    “Vivendo insalvabilmente”. L’uomo, unico animale cosciente di morire, perso il rapporto con la propria fonte, cerca tutte le briciole di vita per soddisfare la propria sete; si vende e si prostituisce ad esse. Ma sono idoli che danno morte. La strategia del piacere tradisce un’angoscia mortale: “Su godiamo dei beni presenti, facciamo uso delle creature con ardore giovanile! Inebriamoci di vino squisito e di profumi, non lasciamoci sfuggire il fiore della giovinezza, coroniamoci di boccioli di rose prima che avvizziscono, nessuno di noi manchi nella sua intemperanza. Lasciamo ovunque i segni della nostra gioia, perché questo ci spetta, questa è la nostra parte” (Sap. 2,6-9). Tutto questo perché sappiamo che la “nostra vita è breve e triste” (Sap. 2,1). Nell’angoscia che tutto è nulla, si riempie inutilmente il vuoto con tutto, che viene mangiato dal nulla. Credere di godere la vita senza Dio è come voler respirare senza l’aria. 

    v.14: “Dilapidato tutto”. L’uomo spende con ansia tutta la sua vita nella paura della morte. Mediante questa il diavolo, autore della morte (Sap 2,24) lo tiene in schiavitù per tutta la vita (Eb 2,15), fino a quando la sacrifica tutta.
    “Carestia forte per quel paese”. In “quel paese”, lontano da Dio, c’è sempre carestia forte. Il piacere soddisfatto alimenta il bisogno, l’ansia di vita si nutre di paura della morte. L’appetito vien mangiando. Quando c’è fame grande, allora inizia la carestia, forte e generalizzata. Si estende su tutto “quel paese” che, lontano da Dio, resta solo e sempre bisognoso di vita.
    “Cominciò a essere nel bisogno”. Al di là di ogni falso pudore ciò che ci avvicina a Dio è il bisogno. Egli non è il tappa-buchi dei nostri bisogni. Però l’uomo stesso è bisogno di Dio. Solo lui è in grado di colmare quell’abisso che egli è. Fatto da lui, solo in lui è se stesso. “Essere nel bisogno” in greco (hystereìsthai) per sè significa: “essere dopo, essere secondo”. Alla pretesa iniziale di autosufficienza, si contrappone la situazione di fatto. In realtà Dio è primo, e l’uomo secondo: viene da lui e realizza se stesso ritornando a lui. 

    v.15: “Andò ad incollarsi”. Chi emigra da Dio, sua vera casa, va a “incollarsi” a un estraneo al quale cede la propria libertà. Chi aveva sofferto della vicinanza del Padre, va a servire padroni stranieri. Respinti Dio, che lascia liberi anche quando si sbaglia, si serve necessariamente l’idolo. L’uomo non è ateo: è idolatra. Anche quando non lo sa. E’ infatti sempre in potere di ciò che si pro-pone: diventa l’oggetto del suo desiderio, davanti a cui sta. L’idolo lo assimila a sé, sostituendosi a colui che già prima l’aveva fatto simile a sé.
    “Lo mandò”. Chi s’allontana dal Padre diventa triste emissario dell’idolo che lo incarica di nutrire i suoi abomini. Diventa schiavo e venduto al peccato, che aderisce a lui come lui ha aderito ad esso.
    “Pascere i porci”. Per il giudeo è l’abominio: nutrire e fra crescere ciò che è immondo. Chi si allontana da Dio, fa crescere in sé la sua dissomiglianza da lui e nutre la propria in identità con se stesso. 

    v. 16:”Desiderava saziarsi”. Gesù aveva detto: “Beati gli affamati ora: sarete saziati”. Per essere saziati bisogna prima riconoscere di che cosa si ha fame. Il vero cibo che sazia lo si distingue dagli altri perché non saziano.
    “Nessuno gliene dava”. L’uomo vorrebbe nutrirsi di ciò che soddisfa i porci. Ma una mano invisibile glielo impedisce, perché la sua sazietà è solo presso il Padre. L’impossibilità di vivere di questo cibo indica la nobiltà dell’uomo: resta sempre almeno “nostalgia” di Dio: 

    v.17: “Venuto in se stesso”. Prima era fuori di sé, alienato nei suoi desideri che, invece di salvarlo, l’avevano ridotto a fame. Ora non si pente. Semplicemente rinsavisce. Constata che la realtà non era come pensava. E’ una conversione a sé, più che al Padre: intuisce il vero proprio interesse. La fame gli fa capire che s’è sbagliato nel valutare le cose. E’ l’inizio di un cammino. “Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono”, dice un antico proverbio ebraico.
    “Salariati di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Istintivamente pensa che l’alternativa sia diventare come il fratello maggiore! In lui gioca sempre la falsa immagine del Padre.
    “Sovrabbondano di pane/carestia perisco”. Vede la differenza tra quanto c’è “qui” e quanto c’è “nella casa del Padre”. E’ lo scarto tra realtà e desiderio, tra fame e sazietà.
    Dopo una prima fase di rigetto del Padre, in cui l’uomo sperimenta la propria emancipazione (l’umanesimo ateo) ci si accorge poi che in realtà l’ateismo è schiavitù dell’idolatria. Ma gli idoli non appagano: sono troppi piccoli e stupidi per bastare all’uomo. L’uomo che ha abbandonato Dio, ne sente il vuoto assoluto: il suo posto lasciato vacante. L’alternativa a Dio non è l’ateismo, ma l’angoscia del nichilismo. Forse oggi il nulla -la vuotezza del peccato assaporato fino alla vertigine- è il normale pedagogo a Cristo (Gal 3,24). La fame grande è la disumanità dell’uomo, la carestia di essere che induce a cercare la fonte della vita. Dietro tanta angoscia moderna c’è il crollare dei falsi valori. 

    v.18: “Sorgerò e andrò verso mio padre”. Il desiderio del Padre, termine del cammino, è principio del mettersi in moto. E’ tenera la pervicacia con cui questo disgraziato continua a considerarlo “Padre” (cinque volte). Al di là di tutto resta sempre tale. Possiamo rinnegare il nostro essere figli, ma non il suo esserci Padre, al quale lui non può mai rinunciare. Per questo possiamo comunque tornare a casa sua, per quanto lontani ne siamo andati. Il desiderio di questo ritorno rimane sempre, come il bisogno dell’acqua per il pesce. Ciò che ci ha allontanato da lui, è in realtà la voglia di essere come lui.
    La nostalgia del Padre è essenziale all’uomo, che è sempre figlio. Nostalgia significa: dolore del ritorno. E’ un dolore che conosce e indica la strada per trovare la pace e cresce in proporzione alla lontananza.
    “Peccai verso il cielo e al tuo cospetto”. Peccare in ebraico significa fallire il bersaglio. Il cielo è Dio. Il cospetto del Padre è il suo volto, che il figlio ancora ignora. Se smette di fuggire e si gira verso di lui, si accorge del sorriso col quale da sempre lui lo ha guardato. 

    v. 19: “Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Essere figlio non è questione di dignità o di merito. E’ un dato di fatto. Scaturisce dalla paternità, per cui siamo ciò che siamo. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio. Ma nell’essere figlio non c’è libertà; non si sceglie né di nascere, né da chi. Però anche il Padre, una volta che il figlio c’è, ha un legame necessario con lui.
    Il figlio non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito. Pensa, non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. Ma la vita non è oggetto di merito: potrebbe essere pagata solo con la vita! Sarebbe allora la morte. Il minore, nel suo senso di indegnità, ha una crisi che lo può portare ancora più lontano dal Padre: finirebbe per diventare come il maggiore. Il male maggiore del peccatore non è il suo peccato, ma il suo guardare se stesso. Questo lo fa cadere nella tentazione di voler essere degno dell’amore di Dio. Così, pur essendo peccatore, consuma il sottile peccato del giusto e giunge all’essenza del peccato: il rifiuto di Dio come amore gratuito. Chi guarda a sé vede il proprio fallimento. Ma chi guarda a lui scopre la propria essenza sempre intatta di figlio, che è il suo essergli Padre. Il figlio “venuto in se stesso”, costata che è servo del peccato; quando “andrà dal padre” vedrà di essergli figlio. La conversione non è diventare “degni” o almeno “migliori” o “passabili”, per meritare la grazia di Dio: l’amore meritato è meretricio. La conversione è accettare Dio come un padre che ama gratuitamente.
    “Fa’ di me come uno dei tuoi salariati”. E’ il peccato del fratello maggiore, presente anche nel minore. Tutt’al più si rammarica di non riuscire a farlo! Chi conosce il proprio peccato, non deve fermarsi ad esso, ma alzarsi ed andare dal Padre.
    A lui non piace più di tanto che ci dispiacciamo troppo di noi. Il disgusto di noi serve come molla per uscire da noi stessi. Il nemico invece ne vuol fare una tagliola che ci trattiene preda di noi stessi. 

    v.20: “E, sorto, venne da sua padre”. E’ importante sorgere dalla propria coscienza infelice e dai propri sensi di colpa per camminare verso il Padre. Anche se il cammino, dal principio alla fine, è ancora tutto occupato dal proprio io. Fino a quando il figlio pensa alla “sua” fame e alla “sua” infamia, al “suo” peccato e alla “sua” indegnità, la sua aspirazione è quella di diventare un salariato. Il figlio che pensava che il padre fosse padrone, volle essere come lui: padrone di se stesso. Poi si mise a padrone, incollandosi a chi gli fece pascolare i suoi porci. Padrone fallito di sé, cerca ancora un padre che gli faccia da padrone.
    L’immagine di un Dio cattivo è una menzogna esiziale. Non lascia altra alternativa che la ribellione che fa morire o il servilismo che uccide. Scompare solo nell’incontro con la tenerezza materna del Padre…
    “Mentre ancora distava lontano, lo vide il padre”. Per quanto lontano il Padre lo vede sempre. Anzi, la vicinanza al cuore è proporzionale alla distanza. Nessuna oscurità e tenebra può sottrarlo alla sua vista (Sal. 139,11ss). A causa del suo affetto, antico come lui, Dio è presbite: vede meglio il figlio più lontano. Il privilegio dei lontani e la missione di Gesù a loro si radica nel cuore stesso del Padre. L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio e lo porta verso di esso.
    “Vedere e commuoversi” sono anche le due azioni attribuite al samaritano. (Lc10,33).
    “Si commosse”. La vista è sempre connessa a un sentimento: ira (Mc 3,5) o commozione (7,13; 10,33) o addirittura pianto (19,41) Vedendo il male del figlio, al Padre si conturbano le viscere. In lui non c’è spazio per l’odio o per l’ira, perché è Dio e non uomo (Os11,8s). Giona dice che Dio “si converte” al vedere il pentimento di Ninive, l’inconvertibile. In realtà egli è sempre convertito verso l’uomo. Aspetta solo che noi ci volgiamo a lui, per farci vedere che il suo volto è da sempre verso di noi.
    La commozione indica l’aspetto materno della paternità di Dio: il suo è un amore uterino e necessario, che lo rende vulnerabile e sempre disponibile. La commozione è l’esatto contrario dell’impassibilità o durezza di cuore: è la qualità fondamentale di quel Dio che è misericordia. Tutte le Scritture, la legge di Mosè, i profeti e i salmi, narrano la sua passione per l’uomo.
    La paternità di Dio di per sé viene dopo la sua maternità. Per questa siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti. E’ la condizione per cui noi possiamo rispondere con amore libero e filiale. Se la paternità sottolinea l’aspetto libero dell’amore di Dio, la maternità ne sottolinea quello necessario, che fonda la nostra libertà. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato.
    “Corse” Quando l’uomo smette di fuggire, s’accorge che colui dal quale scappa per paura, gli corre dietro perché gli vuole bene. E’ stata lunga la corsa di Dio verso l’uomo. E non finirà fino a quando non avrà raggiunto l’ultimo.
    “Cadde sul collo e lo baciò”. Il bacio del Padre della vita è il suo amore di Padre per il Figlio. Tutti gli altri doni sono contenuti in questo bacio, che è lo Spirito Santo, la vita comune del Padre e del Figlio donata al peccatore. 

    v. 21: “Ora disse il figlio a lui: Padre…”. Il figlio non osa chiamarlo “mio” ( vv.18b.20) Rimane comunque la certezza della sua paternità, e il desiderio di appartenenza. Ma è ancora concentrato sul proprio peccato. Non si accorge del suo sguardo, del suo commuoversi, del suo muoversi precipitoso, del suo cadergli sul collo, del suo bacio!? Tale cecità, che sembra impossibile, è il suo inferno, che lo chiude in sé. Non basta che il Padre gli manifesti il suo amore: occorre che questo rifaccia nuovo il figlio. 

    v. 22: “Ora il padre disse ai suoi servi: Presto“. Il Padre ha fretta. Sa quanto nuoce al figlio la sua idea di tornare servo. Vuol distruggere in lui la menzogna che lo uccide. Per questo lo interrompe e non gli permette di esprimere il suo proposito servile. E’ stanco di avere dei servi invece che dei figli. Almeno il lontano che torna gli sia figlio. Ne ha davanzo di un figlio maggiore in casa! Il senso d’indegnità serve per capire che l’invito al banchetto è un dono. Guai a sprofondarci dentro. Il peccato deve essere il luogo da cui si glorifica la sua misericordia, come la profondità della valle indica l’altezza della cima. Diversamente è l’inferno!
    “Portate fuori una veste, la prima”. E’ l’immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originaria che rivestiva l’uomo (Gn 1,27). Persa questa per il peccato, egli rimase nudo. La nostra “prima” veste di gloria è il suo stesso esserci Padre, che ci costituisce suoi figli. Essa non può mai essere distrutta: è la nostra essenza di figli, che resta sempre con lui nel Figlio. La sua paternità rimane anche nel naufragare della nostra filialità. E’ sempre pronta per noi quando torniamo a lui.
    “Vestitelo” Questa veste è Cristo stesso, l’uomo nuovo di cui siamo rivestiti (Gal 3,27; Ef 4,24; Col 3,9s). Quelli che sono ritornati al Padre, sentendosi amati da lui, santi e diletti nel Figlio, come lui sono rivestiti di misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, sapienza e amore reciproco (Col 3,12s). E’ la nuova veste di chi è rigenerato dal battesimo: ci fa e ci rivela figli.
    Un anello e sandali ai piedi” L’anello con il sigillo gli conferisce il dominio su tutto molto di più di quanto credeva… Lo schiavo non porta sandali, ma i suoi piedi hanno ormai già troppo camminato in terra straniera, conoscendo la nudità della schiavitù. Ora, libero come il Padre, intraprende quel cammino durante il quale non si gonfia il suo piede e non si logora il suo sandalo (Dt 8,4; 29,4). 

    v.23: “Il vitello, quello di grano, immolatelo, mangiamo e facciamo festa”. Il sacrificio grasso (alla lettera “di grano) immolato, che “si mangia”, “facendo festa” è un’allusione all’Eucaristia. E’ il pane del Regno, che Gesù “con-mangia” con i peccatori, la sua vita che si fa nostra vita. E’ quanto fa con i peccatori. Gesù che disse ai suoi discepoli: “con desiderio ho desiderato mangiare con voi questa pasqua” brama che noi possiamo mangiare di lui, per vivere di lui, nello stesso amore del Padre. E’ il desiderio stesso del Padre. L’invito iniziale a “con-gioire” non resta un semplice sentimento: è la festa dell’Eucaristia, la gioia del Padre nel trovare Gesù, il Figlio perduto per noi. Con lui, anche il più lontano, che è il più caro, è nella casa del Padre. 

     v.24: “Perché costui, il figlio mio, era morto e rivive, era perduto e fu ritrovato. E cominciarono a far festa”. Il peccatore è chiamato: “il figlio mio” Parola creatrice che ci fa figli e non solo lo siamo chiamati, ma siamo in realtà suoi figli. E non si dice “fecero festa”, ma “cominciarono” a far festa… E’ finita questa festa o continua ancora e sarà senza fine??? 

    v.25: “Il maggiore”. è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto. Qui comincia l’apice della parabola: l’incontro con chi deve ancora essere ritrovato: Per lui tornare al padre significa partecipare alla sua festa per il fratello.
    “In campagna… s’avvicinò alla casa… sinfonie e danze”. Non è ancora nella casa del Padre. Sta lavorando sodo, per vivere secondo il comando di Dio (Gn 3,19).  Le danze insieme al banchetto e al far festa costituiscono l’immaginario per descrivere il paradiso. Questa vita gioiosa indica la differenza tra la vita del servo in campagna e quella del figlio in casa. 

    v. 26: “S’informava”. Il giusto non sa nulla della gioia di Dio. Neppure la sospetta. Anzi, gli è sospetta. Al sentire la musica e le danze, come Giona “provò grande dispiacere e ne fu indispettito” (Gio 4,1). 

    v. 27: “Tuo fratello”. Come i profeti di Israele, così ” uno dei figli-servi”, illustra il nocciolo della questione a chi vuol servire Dio: bisogna accogliere il “fratello tuo”. Solo così riconosci la sua paternità e partecipi alla sua festa. 

    v. 28: “Si adirò”. L’ira è la reazione impotente davanti a una minaccia.  L’atteggiamento del Padre è vissuto come morte di tutta la sua vita servile. Crolla il fondamento della sua esistenza, la sua persuasione profonda. Ma che Dio è questo? Neanche lui è giusto! Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile, concludendo che è meglio morire che vivere se è così (Gio 4,3.8.9) Quest’ira è il contrario della compassione che ha il Padre.
    “Non voleva entrare”. L’imperfetto indica un’azione persistente. L’ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Se la pietà di Dio raggiunge anche gli animali, la sua non raggiunge neanche i fratelli. Non entra nella gioia di Dio. La porta del banchetto è stretta, ma solo per lui. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.
    “Suo Padre uscito, lo consolava”. Dio consolò Israele mediante i profeti: La consolazione del giusto consiste nel convertirsi alla gioia di Dio che ritrova i peccatori. Egli è Padre ed ama tutti: ora con il Figlio è uscito lui stesso per invitare tutti. 

    v. 29: “Disse al padre”. Il cronista lo chiama così. Il figlio maggiore mai! Questo è il dolore del Padre e il peccato del figlio: Ma egli non cessa mai di essere padre, neanche per il giusto: Infatti, come prima non rimproverò il minore, ma gli corse incontro per abbracciarlo, così ora esce senz’altro a consolare anche il maggiore.
    “Da così tanti anni ti sono schiavo”. Essere schiavi invece che figli è il male di tutti gli uomini, peccatori e giusti. La sola differenza è che il peccatore si ribella e se ne va; il giusto rimane a servizio in casa e dà fastidio al Padre.
    “Non trasgredii mai un tuo ordine” E’ puntuale a osservare tutti i 613 precetti. Come Paolo è “irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge” (Fil 3,6). E’ come la pecora smarrita che va errando, che non ha mai dimenticato nessuno dei suoi precetti. (Sal 119,176).
    “Un capretto”. Ha sostituito il dovere alla gioia, il lavoro alla festa. Però ogni dovere ha un diritto, ogni lavoro merita un compenso! Dio non cadetto di dare la giusta mercede al mercenario: “il salario del bracciante al tuo servizio non resti la notte presso di te fino al mattino dopo” (Lv 19,13)? Ma lui ha lo svantaggio di essere figlio. Non ha capito che il Padre non ricompensa secondo i meriti. Non c’è capretto, perché c’è di più: il vitello di grano! 

    v. 30 “Il figlio tuo”. Il maggiore riconosce il titolo di figlio al peccatore. Ma il peccato del giusto è quello di non accettarlo come fratello suo pur riconoscendolo figlio del Padre. Quindi rifiuta il Padre proprio perché gli è Padre!
    “Divorò la tua vita”. Il peccatore sperpera la vita che il Padre gli ha donata. Anche il Figlio, cha ha ricevuto tutto dal Padre, spende tutto per i fratelli perduti. Egli è morto soprattutto a causa del “meretricio del giusto”
    “Con le meretrici”. Ogni uomo dissipò la propria vita di figlio prostituendosi al suo idolo. Il Figlio morì per la falsa immagine di Dio, comune tanto agli atei quanto ai religiosi.
    “Immolasti per lui il vitello di grano”. E’ nominato per la terza volta il sacrificio del Padre. E’ l’offerta di suo Figlio, per tutti i fratelli: il dono del Calvario, il banchetto eucaristico al quale anche i giusti sono invitati in quanto si riconoscono peccatori. 

    v. 31: “Figlio tu sei sempre con me e tutte le cose mie sono tue”. Il Padre gli ricorda che lui lo ha generato. La sua figliolanza, anche se rinnegata, rimane sempre presso di lui che lo genera…
    Il tempo è al presente: il figlio è sempre presso il Padre. Anche il giusto. Nessun figlio ha mai cessato di essergli vicino. 

    v.32: “Bisognava far festa e rallegrarsi”. Questo verbo è sempre in connessione con la morte del Signore: indica il disegno di Dio rivelato nelle Scritture. “Bisognava” proprio che il Figlio morisse per noi, per capire che Dio è sempre con noi e ci dona tutto, anche la vita.
    “Perché il fratello tuo ecc…”. Il compimento delle Scritture si celebra nell’Eucaristia, la festa del Padre per colui che non si vergognò di chiamarsi nostro fratello. Egli si è perduto fino alla morte per trovare noi e ricondurci alla vita. Ed allora la FESTA…
    Chi legge questa parabola corre il pericolo di chiudersi nella tristezza: si riconosce col peccato del minore e in più con quello del maggiore. Dobbiamo invece guardare al cuore del Padre che sempre fa festa per il Primogenito, perduto per noi e ritrovato. Questa è la salvezza nostra: la gioia di Dio!

    Messaggio nel contesto

    Preparata dalle prime due, è la terza scena del c. 15, concepito come un’unica parabola. È giustamente chiamata il Vangelo nel Vangelo: rappresenta il culmine del messaggio di Luca. Parla del banchetto festoso che fa il Padre per rallegrarsi del Figlio morto e risorto, perduto e ritrovato. Si tratta di una parabola. Essa ha un solo significato generale, a differenza dell’allegoria, dove ogni parola ha un riferimento storico preciso. Ciò non significa che i singoli dettagli siano inutili. Sono piuttosto come frecce scoccate da un buon arciere: da diversi punti, fanno sempre centro nell’unico bersaglio. La parabola riesce a cogliere lo spessore della realtà meglio del concetto, uniforme e piatto. Ogni suo elemento ne illumina un aspetto. Se fosse trascurabile, non verrebbe narrato. Quindi, se il senso è uno, ogni singola parola, frutto maturo di memoria antica, serve a evidenziarlo, specificarlo e arricchirlo. Qui leggeremo tutto alla luce di quanto dice il Padre: “Bisognava far festa”. L’hanno capito i peccatori, che fanno festa a Gesù. I giusti sono chiamati a fare altrettanto. Più che del figliol prodigo o del fratello maggiore, è la parabola del Padre. Ci rivela il suo amore senza condizioni per il figlio peccatore, la sua gioia di essere da lui capito come padre e infine l’invito al giusto di riconoscerlo fratello.
    La parabola invita “Teofilo” a essere misericordioso come il Padre (6,36; cf. 11,4!). Diversamente resta fuori a brontolare del banchetto che Gesù celebra coi peccatori. È un invito ai giusti (vv. 1-3) a mangiare il pane del Regno (14,15ss). La conversione non è tanto un processo psicologico del peccatore che ritorna a Dio, quanto il cambiamento dell’immagine di Dio che giusto e peccatore devono fare. Convertirsi significa scoprire il suo volto di tenerezza che Gesù ci rivela, volgersi dall’io a Dio, passare dalla delusione del proprio peccato – o dalla presunzione della propria giustizia – alla gioia di essere figli del Padre. Radice del peccato è la cattiva opinione sul Padre, comune sia al maggiore che al minore. L’uno, per liberarsene, instaura la strategia del piacere, che lo porta ad allontanarsi da lui – con le gradazioni del ribellismo, della dimenticanza, dell’alienazione atea e del nihilismo. L’altro, per imbonirselo, instaura la strategia del dovere, con una religiosità servile, che sacrifica la gioia di vivere. Ateismo e religione, dissolutezza e legalismo, nihilismo e vittimismo sono tutti aspetti che scaturiscono da un’unica fonte: la non conoscenza di Dio. Hanno un’idea di lui come di un padre-padrone. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarlo, per tenere schiavi gli uomini (Voltaire); se ci fosse, bisognerebbe distruggerlo, per liberarli (Bakunin).
    Questa parabola ha come intento primo di portare il fratello maggiore ad accettare che Dio è misericordia. Scoperta gioiosa per il peccatore, è sconfitta mortale per il giusto. Ma solo così può uscire dalla dannazione di una religione servile, e passare, come Paolo, dalla irreprensibilità nell’osservanza della Legge, alla “sublimità della conoscenza di Gesù Cristo” suo Signore (FiI3,6.8). È la conversione dalla propria giustizia alla misericordia di Dio.

    Il racconto si divide in tre parti:

    • – vv. 11-20a: il figlio minore si allontana dal Padre e torna a lui;
    • – vv. 20b-24: il Padre va incontro al figlio minore;
    • – vv. 25-32: il Padre esce per far entrare il fratello maggiore.

    La parabola, che inizia col figlio minore e termina col fratello maggiore, ha come centro la rivelazione del Padre, che ama perdutamente ogni figlio perduto. È un’esortazione al maggiore, perché riconosca come fratello il minore. Solo così può conoscere il Padre, e divenire, come lui, misericordioso (6,36).
    Le azioni del racconto consistono nella partenza e nel ritorno del minore; nell’accoglienza e nella festa del Padre; nel rifiuto del maggiore a entrare e nell’uscita del Padre stesso a consolarlo. Il ritornello: “con-gioite con me” (vv. 6.9), diventa “far banchetto festoso per il figlio morto e risorto” ( vv . 23s). È una necessità per il Padre: “bisognava far festa e rallegrarsi” (v. 32).
    I sentimenti cardine sono: la compassione del Padre per il minore e la collera del maggiore; la festa e la gioia del Padre, che sarà piena quando tutti i figli avranno accolto l’invito. Per ora è realizzata in terra dalla convivialità di Gesù con tutti i pubblicani e peccatori.
    Il figlio minore non ha sentimenti: ha solo bisogni. Ma alla fine è travolto dalla gioia del Padre. Ne resta fuori solo il maggiore: non riconoscendo il fratello, rifiuta il Padre che lo riconosce figlio. Infatti, mentre il minore lo chiama sempre: Padre, egli non lo chiama mai così. Colui che nel racconto è chiamato dodici volte “Padre”, sarà chiamato così anche dal maggiore quando dirà all’altro: “fratello mio”.
    In sintesi: Dio riconosce necessariamente come figli tutti quanti, sia giusti sia peccatori. Semplicemente perché è Padre! Il giusto riconosce a denti stretti il peccatore come figlio, ma non come fratello suo! È quindi il vero peccatore. Bisogna che riconosca l’altro come fratello, identificandosi con lui. Solo così gioisce dell’amore e della festa del Padre per il Figlio suo perduto e ritrovato.
    Questa pagina esige il passaggio da una religione servile alla libertà dei figli. Siamo amati da Dio non perché noi siamo buoni, ma perché lui è nostro Padre. Accogliendo come fratelli tutti i suoi figli, diventiamo come lui che è misericordia in sé e per tutti. Per questo l’ebreo accetterà il pagano (cf. At 10); Stefano, martire di Gesù, perdonerà ai suoi persecutori (At 7,60); Paolo, da fratello maggiore (FiI3,6), si riconoscerà primo dei peccatori (lTm 1,15). Sgonfiato dal suo protagonismo di irreprensibile, si farà l’ultimo di tutti, il minimo tra i santi (Ef 3,8), per accogliere tutti (At 28,30).
    Il capitolo 15 di Luca è un commento a 6,36 (e, implicitamente, a 11,4): descrive il nuovo volto del Padre, come lo vive Gesù, suo vero figlio e nostro sincero fratello. La conversione sarà volgersi a colui che è tutto rivolto a noi, conoscere il suo amore “gentile, cortese e grazioso” (Giuliana di Norwich) per tutti i suoi figli. Per questo il giusto deve accettare un Dio che ama i peccatori. Convertirsi al fratello è accettare il Padre. 

     DOMANDE PER LA RIFLESSIONE PERSONALE

     1) Io sono il figlio minore: che cosa rifiuto o non accetto di Dio? Da cosa vorrei scappare?
    2) Io sono il figlio maggiore: nonostante le difficoltà di vivere la mia fede, che cosa mi fa “restare a casa”?
    3) Sono chiamato ad accogliere l’amore del Padre, sia come figlio minore, sia come fratello maggiore. Vedo in Gesù quesro amore del Padre per me? Come?
    4) Sono chiamato a diventare come il Padre, ma è impossibile, se non rimango attaccato a Gesù. Sento già viva in me la forza del perdono che mi rende capace di amare gli altri?

    Posted by attilio @ 14:38

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