• 25 Mag

     

    Marta e Maria: ovvero della frenesia
    Lc 10,38-42

     

    di p. Attilio Franco Fabris


    All’opposto della controrisonanza dell’indolenza sta la frenesia.

    Si tratta di un’agitazione continua, un correre affannati, un avere l’orologio sempre in mano perché sono tante le cose da fare… tante, troppe. “Mi manca il tempo”; “Ci sono così tante cose da fare”; “Sono troppo impegnato”…

    Il guaio è che tra queste cose “troppo importanti” spesso mancano quelle più importanti!

    Presi dal vortice della corsa autoimposta si vive alienati da sé, mai presenti a se stessi.

    Così la coscienza è dis-tratta: ovvero strappata in mille direzioni.

    La coscienza qui fugge se stessa, non si vuole fermare perché non si vuole ascoltare. Ha paura di farlo. Fermarsi significa infatti lasciare che le domande impegnative emergano, e con esse l’esigenza di una riposta che potrebbe mettere in discussione le scelte della nostra vita.

    E’ una controrisonanza che dice una coscienza incapace di ascolto di se stessa, degli altri, della realtà. Ascoltare significa fermarsi, porsi in clima di silenzio, lasciare spazio e tempo per sé e l’altro. Ma questo indispone, mi mette a disagio, esigerebbe da me sicuramente dei cambiamenti. Ecco allora il correre agitati, sempre ma correre per chi, per che cosa?…

    “Quando si parla di pienezza di vita, si intende una vita raccolta, perché non esiste il possesso di sé senza raccoglimento; ma questo è possibile solo da dentro, dove collochiamo, in senso figurato, il polo unificante di tutte le nostre attività. Il termine raccoglimento porta, nella sua radice, l’idea del “raccogliere qua e là e mettere insieme”… Dobbiamo ricercare la pienezza della nostra realizzazione non solo nel saper fare, ma anche nel saper essere, nel curare e affinare la qualità della nostra vita. Il primo suggerimento che mi permetto di dare è questo: impariamo a fermarci. Impariamo a controllare l’ansia, a fare le cose adagio, perbene, una dopo l’altra, non tre insieme…Fermarsi significa uscire dal ritmo frenetico cui la società ci costringe o ci condanna, questa società che sembra premiare solo chi va forte e arriva primo, e assumere un ritmo di vita più consono alla nostra natura… Fermarsi è il primo regalo che possiamo fare a noi stessi, perché significa portarsi su una dimensione diversa della vita, che non è quella di correre sempre, col cuore in gola, di non sapere mai che cosa fare prima perché tutto è urgente, di sentirsi sempre in ritardo su qualcosa, ma è quella d’un rapporto pacato e dialogante con sé, del contatto con la propria interiorità e del parteciparla agli altri, lasciandola semplicemente trasparire. Dover fare le cose in fretta non è una virtù, è un castigo e, in certi casi, malattia…. Una caratteristica della nostra epoca è proprio questa: non saper vivere nel presente, e meno ancora il presente, voler vivere sempre un giorno avanti a se stessi, cento metri oltre il luogo in cui ci si trova. Voler sempre essere là, non qua. Così non ci si incontra con se stessi perché il nostro io è qui, non là, né ci si concentra su ciò che si sta facendo, tanto meno se ne gustano i risultati. L’urgenza, parola mitica del nostro tempo, in evidenza su tutte le scrivanie, ci mette addosso un’agitazione che ci fa sentire vivi, ma in realtà ci svuota. Fino al giorno in cui ci si scopre aridi e, in un ssussulto di resipiscenza, ci si domanda: ma tutto questo che senso ha?” (G. Colombero, Cammino di guarigione interiore, San Paolo, pp. 56-60)

    * * *

    v. 38

    mentre camminavano… entrò: Gesù e i discepoli in cammino verso Gerusalemme. All’inizio si parla al plurale poi al singolare. Come mai? Forse per l’evangelista i discepoli non possono ancora entrare nel luogo in cui il Signore sancirà la fine di uno degli usi e costumi più consolidati in una società a forte impronta maschilista.

    Gesù dunque “entra in un villaggio”: dove villaggio sta ad indicare un luogo arretrato, tenacemente attaccato alle tradizioni, diffidente verso le novità viste con sospetto: “Si è sempre fatto così!”.

    una donna…:

    Il forestiero si fermava infatti sulla piazza del villaggio, posta all’inizio e lì attendeva che qualcuno lo invitasse nella propria casa.  Ospitare il forestiero nella cultura orientale era ed è un dovere tra i più importanti. Ma essere ospitato da una donna (e per giunta non sposata) era gesto quantomai sconveniente per quella stessa cultura. Da qui il gesto che così anticonformista di Marta. Toccava all’uomo fare gli onori di casa.

    Marta: il nome è già un programma. In lingua aramaica significa “padrona della casa”. In effetti la casa è “sua”.

    Perché Marta ospita questo “rabbì” in casa sua?

    Forse lo conosce già o ne ha sentito parlare. Il suo invito è totalmente gratuito? O si attende forse un ritorno di immagine nei confronti dei propri compaesani? Invitare un personaggio illustre è sempre motivo di vanto e di distinzione. Oppure….

    v. 39.

    Maria: è la sorella minore.

    Seduta ai piedi: o meglio “ stando ai piedi” in quanto nella casa palestinese non esitono sedie, ma solo stuoie dove tutti si adagiano.

    Ma quest’atteggiamento assunto da Maria ha una valenza specifica: è il gesto tipico del discepolo. La sua attività consiste nell’ascoltare il maestro. Anche questo un gesto anticonformista : alle donne era vietato interessarsi della Legge, ascoltare i rabbini, essere discepole. Questo è un diritto solo dell’uomo.

    Il posto della donna è la cucina tra i fornelli, proprio come sta facendo Marta la padrona di casa, tutta presa dalle tante cose da fare.

    ascoltava: si mette negli orecchi la Parola Maria in tutto l’episodio narrato tace: non si affanna ad affermarsi ad ogni costo pur di essere protagonista del momento. Maria è dimentica di sé, tutta intenta in colui che ascolta. Vive  la beatitudine del discepolo: vedere e ascoltare (v. 23s).

    v. 40

    Marta invece…: Essa si crede  la “regina della casa”, non accorgendosi di essere invece schiava della sua condizione, e vittima di un modo di pensare che le impone determinati ruoli e non altri, e in questi ruoli crede di trovare la sua realizzazione. Ella si crede “padrona” ma in realtà non lo è. E’ l’immagine perfetta di coloro che vivono sulle aspettative degli altri, e per questo attendono insaziabili approvazioni e complimenti (cfr. Pr 31,13.15.17-19.21-22.24).

    Così Marta è presa, agitata, divisa in se stessa da tutte le cose che “si devono fare”. Conosce il suo dovere! Sua sorella seduta, e lei tutta così indaffarata!

    Occorre ascoltare profondamente le sue risonanze.

    Si sente probabilmnte vittima incompresa “del dovere” (“Ecco che cosa mi tocca fare!”) , estromessa e quindi gelosa della sorella (“Guardali lì, come se la intendono! E io qui a faticare!”), indispettita del maestro che non la degna di una considerazione (“Neanche si accorgano di me, come se non esistessi! Possibile che Gesù non richiami quella pelandrona al suo dovere che è stare in cucina?”).

    Le “tante cose da fare”, che la costringono a correre di qua e di là affannosamente, divengono uno schermo che le impedisce di ascoltare se stessa, i suoi desideri profondi, le sue emozioni.

    In questa agitazione e frenesia Marta “perde se stessa”, ovvero è strappata in mille direzione che le impediscono di ritrovare se stessa. Questo non ascolto frenetico non può che avere se non una conclusione “logica”: scaricare sugli altri il suo disagio, perché la situazione è insostenibile.Scaricarlo razionalizzando il suo disagio.

    Fattasi sopra: visto che Gesù non interviene è allora Marta ad irrompere furibonda in salotto. Maria e Gesù sono seduti. Marta, in piedi incombe in atteggiamento di superiorità e di giudizio su loro due. Il rimprovero è a tutti e due.

    Signore non ti curi?: In queste parole riscontriamo una cosa importante. Marta ha un orizzonte molto limitato e tutto centrato su se stessa. Il mondo intero deve girare intorno a lei (mia sorella, mi abbia lasciata sola… mi aiuti).

    Intravvediamo che più che dell’aiuto di Maria, Marta è invidiosa dell’approvazione che il Signore dà alla sorella. Desidera che il Signore la rimproveri e così approvi lei, che sì sa cosa bisogna fare e fa ciò che sa! A Marta interessa l’approvazione implicita di quanto fa lei nella disapprovazione esplicita di sua sorella.

    La situazione di Marta è triste. Vive male. E’ come la situazione degli schiavi contenti di esserlo. Schiavi che non aspirano alla libertà, e addirittura spiano i tentativi di libertà degli altri allo scopo di ricacciarli nella schiavitù (cfr Gal 2,4).

    v. 41

    Marta, Marta: è un solerte e solenne richiamo.

    Ti affanni…ti agiti per molte cose: principio del servizio di Marta è il proprio io. Il suo voler essere al centro dell’attenzione, la sua pretesa di essere riconosciuta, che sia applaudito il suo sacrificarsi e affannarsi. Questo voler essere al centro le impedisce di trovare il centro, il punto focale e il cardine, su cui appoggiare il suo servizio e in fin dei conti la sua vita. Questo è frutto di un non ascolto!

    I suoi molti servizi nascono perciò non da una gratuità dettata dall’amore, ma da una sorgente inquinata e sono segnati perciò da turbamento e affanno. Si può arrivare fino a morire per l’altro per affermare il proprio io (cfr 22,33).

    v. 42

    di una sola cosa c’è bisogno: Maria ha compreso che il cardine su cui deve ruotare la vita, i molteplici servizi… è uno solo: l’ascolto della Parola. Qui Maria ha trovato la sua libertà. Se manca questo allora tutto diviene affanno e agitazione per la paura di perdere se stessi.

    L’uomo che non vuole “perdere se stesso” nell’Ascolto è inevitabile che cada nell’affanno e nell’agitazione illuso com’è di dover costruire da solo la propria vita e il proprio ruolo nel mondo.

    La parte buona:  è l’eredità (cfr Sal 16,5-6). E per il credente vera eredità è il Signore, la comunione con lui che scaturisce dall’ascolto. Una eredità che nulla potrà toglierci: “Marta, tu navighi, Maria è in porto” (sant’Agostino).

    Posted by attilio @ 08:48

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