• 22 Mag

    La frode di Anania e Saffira
    Atti 5,1-11

     

    di p. Attilio Franco Fabris

    La gelosia di sé è’ la ricerca di un angolo della mia vita di cui non devo rendere conto a nessuno.

    Non voglio condividere i miei segreti, perché voglio essere io il padrone di me stesso: “Sono io che decido quanto, come, dove dare me stesso agli altri”. “Io sono mio: e basta!”. “Io mi metto in gioco tanto quanto io decido”. “Faccio entrare l’altro nella mia vita tanto quanto voglio”.

    “Ho già condiviso tutto e basta!” dove il tutto sono io che lo decido.

    Tale risonanza riguarda ovviamente e anzitutto i rapporti seri e vitali della nostra esistenza.

    Cosa distingue la gelosia di sé dalla “privacy”, o meglio al diritto alla riservatezza?

    Sicuramente la sua impermeabilità e la sua intransigenza.

    Da dove nasce questo desiderio? Esso nasce dalla paura di essere spossessati. Dal timore che l’altro possa sfruttarmi. Paura di lasciarmi invadere il territorio di cui io solo voglio essere il padrone. Ma questo territorio diventa presto un’isola in cui io mi condanno alla solitudine.

    Cosa ne scaturisce?

    Partendo dalla premessa che l’uomo è fatto per la comunione e che la comunione esige la condivisione. Allora più condivido e più vivrò la comunione, più mi sentirò la mia coscienza respirare ed espandersi.

    Se invece vivo questa controrisonanza nella mia vita allora l’evoluzione della mia coscienza si ferma, non evolve.

    Intere regioni della mia coscienza rimangono inesplorate perché non condivise. La coscienza si atrofizza in vasti settori.

    Affermare il principio della gelosia di sé è una perdita secca per la coscienza. Nego al mio io più profondo la crescita dell’interazione, mi ritrovo in un isolamento mortale.

    Quello che chiamo la mia ricchezza diviene la mia più grande povertà. Se impedisco all’altro di entrare, non mi permetto di entrare in relazione con il mio io più vero e più profondo, e dunque mi impedisco di conoscermi sempre più.

    L’interazione che avviene nell’incontro e nel dialogo è negata.

    Non bisogna mai affermare il principio della gelosia di sé ma occorre al contrario aprirsi progressivamente alla relazione nello scambio delle nostre risonanze. E’ questo l’ambito vitale in cui la coscienza respira, evolve, matura, impara a conoscersi.

    Nei vv. 32-35 del capitolo quarto degli atti Luca descrive la condivisione dei beni della comunità di Gerusalemme: “La moltitudine di coloro che eran venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.

    Tale condivisione è vera ed è frutto solo dell’accoglienza della buona Notizia, dell’ascolto della Parola. Altri fondamenti si rivelano molto fragili ed inconsistenti.

    Così ai vv. 36-37 viene portato l’esempio di Barnaba: “Così Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa «figlio dell’esortazione», un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli”.

    A questi due quadri così edificanti ed esemplari l’autore accosta immediatamente la tragica vicenda  di Anania e Saffira. Tale vicenda viene ad offuscare il quadro così positivo sinora descritto dagli Atti.

    Il loro peccato è presentato come il “peccato originale” nella nuova comunità. Drammaticamente esso pone il problema della sussistenza del male anche all’interno della comunità dei discepoli di Gesù: questa non può ritenersi al riparo dal peccato. Nel gesto di Anania che introduce la menzogna e la bramosia del denaro dentro la comunità dei discepoli, quasi fosse il peccato originale della comunità, è all’opera la potenza menzognera si satana stesso.

    E’ significativo che il peccato per cui ci si esclude dalla comunità dei discepoli prenda il volto della menzogna e della bramosia di denaro. Due vie privilegiate per fare alleanza con il padre della menzogna e il divisore.

    Dunque una “buona notizia” che inizia con due morti?!

    E’ una storia che mozza il fiato.

    Chi sono i protagonisti?

    Sono due sposi. Da quel che appare se l’intendono bene e viaggiano di comun accordo.

    Forse senza figli.

    Sono in uno stadio avanzato nel loro itinerario di fede: sono giunti alla proposta della sequela radicale del Signore rivolta al giovane ricco: “Vendi tutto, da’ il ricavato ai poveri, poi vieni e seguimi”, dunque quasi al culmine del cammino di fede (=la proposta dei consigli evangelici).

    vv. 1-2. L’introduzione descrive il raggiro perpetrato dai due coniugi nei riguardi della comunità, al fine di presentare una bella figura senza perdere il vantaggio della proprietà. Si tratta di un atteggiamento ipocrita.

    Che cosa ha agito nella coscienza dei due per giungere a tale decisione? Come ci sono arrivati? Che giustificazioni avranno portato per razionalizzare la loro scelta? (“Chi mi dice che anche gli altri e lo stesso Barnaba non abbiamo agito come vogliamo fare noi?”). (drammatizzazione).

    La condivisione del denaro che doveva essere segno di fraternità, condivisione, comunione diventa occasione invece per essere gesto di prestigio, cioè fonte di divisioni fondate sulla menzogna.

    Perché accade ciò? Perché essi condividono con la comunità solo un’immagine costruita di sé stessi, che porta a desiderare di corrispondere a determinati parametri che in realtà sono ancor ben lontani dal vissuto reale della propria coscienza (illudersi di fare i passi più lunghi della gamba; volermi far vedere più bravo di quel che veramente sono).

    Vi è sicuramente spirito di competizione e di rivalità nel loro atteggiamento: farsi vedere esemplari, ligi e coerenti ma solo esteriormente.

    Grave scelta questa perché la fede e la comunità vengono strumentalizzate in vista della loro autorealizzazione. Si giunge a vivere in uno stato di menzogna più o meno cosciente.

    La strategia che Anania e Saffira mettono in atto è quella del finto-abbandono, e questo è frutto di un mancato e serio ascolto della Parola.

    E’ una vita impostata in un circolo vizioso di cui rimango io stesso vittima, un circolo vizioso che mi porta a non condividere realmente la vita, a giocare tenendo per me dei segreti: l’obiettivo: essere l’unico padrone della mia vita.

    vv. 3-4... Forse prima di vendere la proprietà Anania aveva formalmente e solennemente destinato il ricavato alla comunità (Dt 23,22-24).

    Ma Pietro di fronte al gesto di Anania risponde mettendolo in guardia contro tale falsità. Egli scopre l’inganno di Anania come il profeta Eliseo lo scoprì nei confronti del suo servo Giezi (4Re 5,26) ricevendone adeguata punizione. In chiari termini Pietro ammonisce: “Ti sei trattenuto parte del denaro”: un’espressione che troviamo solo altre due volte nell’AT in relazione alla colpa commessa dal popolo dopo  dopo la morte di Mosé quando giunse alla terra promessa (Gs 7,1ss).

    Il responsabile della comunità in questo momento sta compiendo un importante servizio della Parola: nella vicenda di Anania e Saffira, Pietro ha il coraggio di compiere tale servizio fino in fondo, ben sapendo che la Parola è spada a doppio taglio che può ferire ed anche uccidere (cfr Ebr 4,12-13). Lo fa certamente con timore e tremore perché sa bene che chi annuncia la Parola è anch’egli sottoposto allo stesso suo giudizio.

    Ci domandiamo: oggi nelle nostre comunità sappiamo porgere al fratello il servizio della Parola, anche quando può ferire? Oppure “pro bono pacis” si fa finta di niente. Ma in questo modo tradiamo il servizio al quale il Signore ci chiama. E se non lo facciamo non sarà forse perché tutti noi siamo un po’ come Anania e Saffira con i nostri “gruzzoletti” nascosti da difendere? Ma in questo modo non si fa servizio alla verità della Parola e le nostre paure fanno da signore sulla nostra vita.

    v. 5. Al termine del discorso di Pietro troviamo solo la confusione, l’indurimento del cuore, il silenzio di Anania. Egli non risponde nulla alle sue domande.

    Si tratta di un vero e proprio indurimento nei confronti della Parola, pur tanto ascoltata.

    In verità il peccato dei due coniugi non si risolve solo in un po’ di vanità e di menzogna, ma in un affronto e attentato contro la santità e l’integrità della fede in Cristo e della vita della comunità. La menzogna è nei confronti di Dio e della sua famiglia (5,4).

    Anania (e Saffira) vuole rimanere l’unica autorità della sua vita, senza doverne rendere conto ad alcuno. E’ geloso di sé, e non permette a Dio né tantomeno alla comunità di aver a che fare con la sua vita. E questo atteggiamento di Anania esprime il suo effettivo isolamento, logica conseguenza della sua scelta.[1] L’isolamento è in fin dei conti la sua morte, il tagliasi fuori dalla logica vita della condivisione. Anania crolla ai piedi dell’apostolo spirando.

    Il giudizio di Dio non può non essere drastico e improvviso, e Pietro, con tremore, ne è testimone e interprete autorevole.

    Nella comunità si fa largo un senso di paura e di timore di fronte a questo tragico fatto.

    * I cristiani lì presenti  prendono consapevolezza che nella comunità è presente ed agisce lo Spirito del Signore.

    * La comunità comprende che la Parola di Dio è in grado di discernere la comunione vera da quella inficiata dalla  paura di perdere e dalle  controrisonanze.

    * La comunità si sarà domandata: “Che ne è della garanzie offerte dalla spontaneità nel vivere la carità?”. Troppo fragili nei loro progetti e nelle loro buone intenzioni, gli uomini hanno anche bisogno che in mezzo a loro gli Apostoli siano i segni della potenza di Dio che viene in aiuto alla loro debolezza..

    vv. 7-10 Saffira assume il medesimo atteggiamento/peccato del marito. E dunque anche la conclusione è identica. La Parola agisce immancabilmente con il suo giudizio.

    La vita vissuta nella logica della paura di perdere e nella menzogna è contagiosa.


    [1] La regola di Qumram prescriveva nei suoi ordinamenti: “Se tra loro si trova un uomo che mente a proposito dei beni, ed egli ne è conscio, lo escluderanno di mezzo alla purificazione dei molti per un anno (=esclusione dai riti quotidiani di purificazione, il che significa portare con sé l’impurità) e sarà privato di un quarto del suo pane” (1QS VI,24-25).

     

    Posted by attilio @ 10:51

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