• 26 Mar

    La rivelazione del Nome tra dubbi e contraddizioni

    Es 3,11-22; 4,18-31

    di p. Attilio Franco Fabris


    Dio chiede a Mosè di tornare in quell’Egitto da cui quarantanni prima era fuggito braccato e impaurito e di affrontare quella che era la massima potenza e autorità politica, militare e religiosa. Ovvio che dinanzi a questa prospettiva Mosè senta le sue povere forze vacillare, dopotutto ha già sperimentato un’amara sconfitta e delusione in questo senso. Ma Dio gli chiede di porsi nuovamente di fronte all’incerto, in un’avventura rischiosa e umanamente quasi impossibile, ma con una differenza fondamentale: ora egli è mandato da un Altro. Dovrà fare affidamento unicamente alla potenza della parola di Colui che lo manda, su nient’altro: “Tu, poi, cingiti i fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti alla loro vista, altrimenti ti farò temere davanti a loro”  (Gr 1,17).

    Ma la paura nonostante questo si affaccia nella coscienza di Mosè e gli fa dire: “Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?” (v. 11). Certo egli ormai è cosciente della sua debolezza e limitatezza, non vive più dei sogni pretenziosi e intempestivi di quand’era giovane, ora può solo dire: “Chi sono io per andare da faraone e far uscire dall’Egitto gli israeliti?”. Non è più il nobile che poteva dire: “Ma lei non sa chi sono io!”.

    Dinanzi a questo timore il Signore pronuncia solo una parola che è promessa: “Io sarò con te” (v.12 cfr Gn 26,3.24; Gd 6,16;1Re 11,38; Gr 15,20; Is 41,10; Lc 1,30; Lc 5,10; At 27,24…). Insieme a questa parola Dio aggiunge un’altra promessa: Dio dà appuntamento a lui e al popolo proprio in quel luogo. Tutti toccheranno con mano che Dio è fedele e la sua parola certa: “Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte»” (Es 3,12). Ma le promesse non terminano lì, ai piedi del monte: Dio rilancia la promessa fatta ad Abramo: il suo popolo dovrà poi salire alla terra promessa: in un “paese vasto e buono” dove “scorrono latte e miele”.

    Dimmi chi sei…

    Ma in nome di chi Mosè dovrà presentarsi al suo popolo e al faraone? È evidente che Mosè senta la necessità di sapere il nome di questo Dio: “Ecco io arrivo dagli israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Mi diranno: Come si chiama? E io che risponderò loro?” (v.13).  Conoscere il nome di Dio equivale a possedere la sua potenza e ad invocarla. Nel nome, secondo la cultura semitica, risiede tutto il mistero della persona. A Mosè che continuamente domanda: Chi-sono-io per andare dal faraone…(3,11,…) il Signore risponde semplicemente: “KI-EHYEH ‘IMMAKH – IO SONO CON TE”.

    La risposta di Dio è a prima vista ambigua e deludente: “Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono!” (v.14). Dio si sottrae, come altre volte nella scrittura, alla pretesa impossibile dell’uomo. Come a Giacobbe che domanda il nome del suo aggressore, anche qui il nome non viene di per sé dato, o meglio si tratta di un nome che dice tutto e nulla nello stesso tempo. Con ciò Dio da un insegnamento importante a Mosè: “Io non sono come gli altri dei disponibili alle strumentalizzazioni degli uomini desiderosi di potenza, il mio mistero mi appartiene perché non sono un idolo “opera delle mani di un uomo” (Sal 115,4).

    Purtuttavia ascoltata in profondità la definizione che Dio da si se stesso contiene una rivelazione straordinaria: se da un lato infatti egli nasconde all’uomo la sua identità trascendente, dall’altro egli dice il suo desiderio di entrare in dialogo con la storia degli uomini: “Io sono colui che sono” manifesta così non tanto un’entità metafisica quanto una presenza costante nella storia. A Mosè deve bastare sapere che “IO-CI-SONO”, che Dio è COLUI CHE E’, COLUI CHE E’ QUI CON TE E PER TE. Questo è molto più importante del sapere il nome.  Il nome del Signore è: “Eccomi!”. Questo nome nel nuovo testamento sarà che gesù si darà:  “Emmanuele-Dio con noi”:  “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20)

    “Io Sono” non è forse il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe? (cfr v.15). Egli è il Dio di sempre che si ricorda delle sue promesse: “Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione” (v.15). Mosè non dovrà far altro dinanzi ai suoi fratelli se non aiutarli a riandare alla loro storia per affermare che il Dio dei è ancora presente e lo sarà anche in futuro accanto a loro.

    Ci interroghiamo: anche per me Dio “è colui che è”. Il Dio sempre presente che mi accompagna nel cammino della vita e opera liberazione e salvezza. E’ il Dio della promessa e della speranza. L’atto di fede sta nell’affidarmi alla sua promessa, a fare affidamento su di essa vincendo le mie paure e resistenze che dicono la mia poca fede. Chiedo al Signore la grazia di avvertirlo presente e agente nella mia vita, la grazia di fidarmi di questa sua presenza operante nella mia vita e nella storia. Anche per me è l’invito. “Non temere!”.

    Ancora obiezioni e resistenze

    Ma tutto questo per Mosè (e anche per noi ) non basta. La coscienza vittima della paura di perdere avverte forti resistenze: esse si manifestano attraverso dubbi che si trasformano in vere e proprie obiezioni.

    La prima di queste è la previsione, già d’altra parte costatata anni prima, dell’insensibilità non tanto del faraone quanto dei fratelli ebrei al messaggio di cui è portatore: “Ecco, non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno: Non ti è apparso il Signore!” (v.4,1). Quanto spesso la nostra paura ci porta a fare previsioni che riteniamo infallibili, ma basate unicamente non sulla fiducia accordata alla parola ma su calcoli ed esperienze solo umane.

    La successiva obiezione è: “Mio Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono mai stato prima e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua” (v.4,10). Dunque l’obiezione non è più sui destinatari ma si sposta dai destinatari all’emittente.

    Dunque Mosè percorre tutte le possibili strade per opporre obiezioni! Continua a nutrire perplessità e dubbi circa l’efficacia della missione affidatagli: ai suoi occhi tutto, se stesso e gli altri, gli appare complesso ed impossibile. A nulla sembrano dunque servire promesse e rassicurazioni da parte di YHWH. Quanto anche noi ci aggrovigliamo rendendo tutto complicato ed impossibile dimenticandoci che a Dio “Tutto è possibile”.

    Questa resistenza raggiunge il suo vertice al v. 13: “Perdonami Signore mio, manda chi vuoi mandare”. Il che equivale a: “Senti, ti ringrazio della fiducia, ma trovatene un altro”. Siamo nella linea dell’ambiguità e resistenza che abitano non solo il cuore di Mosè, ma anche dei giudici, dei porfeti, dei re, dei discepoli, di noi stessi. Unicamente Cristo può dire subito e con pieno e totale abbandono:Dopo aver detto prima non hai voluto e non hai gradito né sacrifici né offerte, né olocausti né sacrifici per il peccato, cose tutte che vengono offerte secondo la legge, soggiunge: Ecco, io vengo a fare la tua volontà. Con ciò stesso egli abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo.  Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebr 10,8-10).

    Le reazioni di Mosè sono autentici contrasti interiori: risonanze e controrisonanze alla Parola. Sono le nostre stesse reazioni che scaturiscono nel momento in cui ci raggiunge la Parola di Dio.  L’incontro con JHWH non è una bacchetta magica che risolve tutto: la debolezza di Mosè vi entra ancora in gioco, se mai egli si era prima illuso di possedere autonomamente energie straordinarie. Una sola cosa gli viene ripetutamente garantita dal Signore, proprio quella che più comincia ad intimorire Mosè:  Egli ha con sé solo la potenza della Parola di Dio e questa sola. Anche gli apostoli saranno mandati solo con questa garanzia: Allora chiamò i Dodici, ed incominciò a mandarli a due a due e diede loro potere sugli spiriti immondi. E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il viaggio: né pane, né bisaccia, né denaro nella borsa…” (Mc 6,7s).

    Una “posta in gioco” molto alta: richiede tutto!

    In effetti il dialogo con Dio non si risolve in una serie di indicazioni o imposizioni pratiche da eseguire alla cieca, militarmente. In questo dialogo rientra totalmente il ruolo della libertà dell’uomo, una libertà che è ferita dal peccato e dunque da conquistare passo dopo passo. Ecco perché il dialogo che Dio stringe con gli uomini non conferisce loro giustificazioni di ordine culturale o di ordine pratico all’agire umano, né consente di identificare la parola di Dio con un preciso piano di interventi: la parola di Dio non dà nulla più di quel che essa stessa è, nella fragilità di una promessa il cui compimento appartiene soltanto all’iniziativa di JHWH: Dio chiede a Mosè di acconsentire nella fede alla sua iniziativa: “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire” (4,11).

    Per vincere le sue resistenze JHWH garantisce a Mosè l’assistenza dei suoi “segni” (4,2-9), ma questi sono “segni” di uno scontro violento col faraone (al v. 21 compare il tema dell’indurimento del cuore del faraone che percorrerà tutta la sezione delle piaghe inflitte all’Egitto).. Egli ben capisce che in gioco è la sua stessa “carne” e il suo stesso “sangue” ovvero tutta la sua vita (4,6-8).

    Si rende benissimo conto Mosè della posta in gioco: egli sente che non avrà sconti sulla fatica di ogni missione che voglia essere un vero servizio del bene. Dovrà rinunciare ad ogni ipotesi “clericale” e mettersi alla ricerca di “fratelli”, non di sudditi, di persone anch’esse libere, di interlocutori a cui Dio parla personalmente e non di uditori obbligati a subire la sua funzione mediatrice. In 4,24-26, un testo oscuro e enigmatico che fa riferimento a Gn 32,23-32, questa posta in gioco è espressa in modo altamente drammatico. In entrambi gli episodi si tratta di una abilitazione alla missione di un uomo di cui Dio vuol servirsi: Mosè è all’improvviso terribilmente provato da Dio come lo fu Giacobbe. Questa irruzione violenta di Dio nella vita di Mosè è un’agonia, un combattimento in cui l’uomo sperimenta tutta la sua povertà, il limite, la debolezza. Ciò è importante affinché egli si ricordi sempre da quel momento che la forza che lo abiterà non sarà la sua ma quella di Dio stesso.

    Ci rendiamo conto della “posta in gioco” che è iniziata nel momento in cui Dio mi ha interpellato e chiamato. Chi si avvicina a me si avvicina al fuoco! Cosa ha significato e significa concretamente per me questa “posta in gioco” in cui pongo “sul tavolo” tutta la mia vita fidandomi di Dio e acconsentendo al suo mandato? Quante e quali mosse pongo per trattenere il “gioco” e non rischiare? Quanto gioco al ribasso? Quanto sono disposto a “giocare”?

    Mosè e Aronne

    Mosè torna dal suocero per comunicargli la decisione di tornare dai suoi fratelli (4,18). La prospettiva sembra ritornare all’inizio, ma se tutto sembra ripetersi in modo uguale tutto in realtà è diverso. Il movimento di Mosè verso i suoi fratelli non è più l’intervento generoso, ma ingenuo e presuntuoso, di un giovane pieno di energie e iniziative. Ora il viaggio è disposto da Dio ed egli è solo un povero anziano a cui solo la chiamata di Dio dà slancio e vigore (4,20). Il suo protagonismo è finalmente scomparso. Dio ora ha mano libera!

    Ma ci sono alcuni elementi nuovi. Il giorno in cui Mosè riceve da Dio la sua missione non segna per lui l’avvio di un frenetico attivismo pastorale. Mosè non studia a tavolino progetti e iniziative, non stila programmazioni di interventi sul come andare dai suoi fratelli.

    Paradossalmente egli non ha ancora cominciato il suo viaggio verso i suoi fratelli, che già questi, nella persona di Aronne, gli muovono incontro. E questo mentre Mosè è ancora sul”monte”: ciò significa che egli è scavalcato dall’iniziativa di Dio! L’esperienza dei dodici, come anche quella della Chiesa primitiva, sarà proprio quella di sentirsi “scavalcati” dall’azione di Dio, portati ad andare in una direzione che mai avrebbero preso in considerazione (Cfr Gesù che si fa incontro alla barca nella tempesta, la moltiplicazione dei pani, le apparizioni del risorto, Cornelio, i cristiani di Antiochia,…)

    Non abbiamo mai sperimentato questo “scavalcamento” da parte di Dio nella nostra vita? Forse proprio nel momento in cui freneticamente stilavamo altri progetti e ipotesi “pastorali” o “spirituali”….?

    Mosè non è più solo: il Signore fa spuntare inaspettato un fratello con cui condividere il cammino e la missione. Già prima il Signore aveva ricordato a Mosè mentre obiettava: Non vi è forse il tuo fratello Aronne, il levita? (4,14).  Questa collaborazione verrà sottolineata anche in 6,9-7,7. Si insisterà sulla comune origine: sono due fratelli (Aronne viene commemorato quale fratello “maggiore” di Mosè: “Mosè aveva ottant’anni e Aronne ottantatre “ (7,6; 6,20), e sulla complementarietà delle loro funzioni (7,1ss). Perché questo bisogno (di tradizione P: sia Mosè che Aronne sono della tribù sacerdotale di Levi) di dare rilievo anche alla figura di Aronne? Se la parola di Mosè (ironia del profeta!) è “impacciata” (6,12.30), Dio gli mette accanto Aronne, il quale presterà la sua voce perché venga affidato il messaggio affidato a Mosè (6,29; 7,1s). In questo senso la presenza di Aronne assume il carattere di necessità. Solo in forza della sua cooperazione la missione si potrà realizzare. Anzi il nostro  testo pone quasi sulla stesso piano le due figure: “Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne, e diede loro l’incarico…” (6,13). Non è questo un aiuto ulteriore di grazia perché Mosè sia preservato dalla tentazione di ritornare a credersi l’unico protagonista?

    Si tratta di porre poi in risalto due dimensioni fondamentali. Da un lato si sottolinea la solitudine di Mosè, il dramma della sua missione così contrastata e sofferta: “Perché dunque mi hai inviato?” (5,22). Dall’altro la narrazione cerca di strappare l’uditore da un’immagine (rischiosa perché miticizzante) di un Mosè quale eroe solitario e lontano. Egli è invece inserito a pieno titolo nel tessuto del suo popolo: la presenza di Aronne sta a sottolineare proprio questa appartenenza, questa solidarietà.

    Altro elemento successive di riflessione sarà il rapporto, necessario ma spesso complesso e conflittuale (come apparirà nel seguito), tra profezia e sacerdozio in ordine alla edificazione del popolo di Dio. Collaborazione necessaria all’uno e all’altra contro la pretesa di accaparrarsi unilateralmente la missione che deve restare iniziativa essenzialmente divina. Da qui il discorso della complementarietà dei carismi presentata da Paolo soprattutto nella lettera prima ai Corinzi.

    Il popolo credette… ma per poco!

    Il capitolo quarto termina con il primo approccio di Mosè e Aronne presso i fratelli ebrei in Egitto. Esso inaspettatamente si rivela positivo: il popolo credette . il verbo “credere” è espresso nella sua accezione teologica di “adesione alla parola”. Mosè si era sbagliato anche qui!

    Ma l’entusiasmo e la fede con cui il popolo accoglie l’annuncio è di breve durata: presto Mosè e Aronne dovranno difendersi dall’accusa di aver solo peggiorato la situazione: paradossalmente le critiche e le resistenze degli israeliti al progetto della liberazione saranno molto più forti di quelle del faraone. Mosè sarà “crocifisso” da questa tensione: da una parte il Signore che lo carica del ruolo di “mediatore della liberazione”, dall’altra la resistenza del faraone, e ancora la resistenza del popolo di Israele che esita a mettersi in cammino verso la terra promessa. Come non può sorgere il dubbio nella coscienza di Mosè? Il timore di aver nuovamente fallito, sbagliato nuovamente tutto? Anche questo fa parte del cammino… Sempre attuale la parola di Is 53,1: Signore chi ha creduto alla nostra parola? E il braccio del Signore a chi è stato rivelato?

    Mosè apparirà sempre più una parabola di Gesù (Yehshuah: JHWH salva!) mandato per liberarci dalla schiavitù di satana e del peccato. Crocifisso dalla resistenza e dal rifiuto del suo stesso popolo.

    Posted by attilio @ 10:27

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