• 24 Set

    La nostra è la cena del Signore?

    Lectio di 1 Cor 11,17-34


    Il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1396 recita: “Coloro che ricevono l’eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa”.

    Quindi l’Eucarestia come frutto produce non solo una comunione intima con il Signore ma suppone e fortifica la comunione on i fratelli. Disgiungere i due elementi significa stravolgere il significato dell’Eucarestia.  Eppure, dobbiamo riconoscerlo, torna troppe volte comodo ridurre l’eucarestia a rito sganciato dall’impegno che viene a determinare nei confronti della comunità. Il nostro “esaminare noi stessi” se siamo nella condizione per prendere parte al banchetto eucaristico si riduce ad un esame superficiale che trascura la condizione che deve stare al fondo: come vivo il rapporto con i fratelli e sorelle di fede? In quale misura mi sono impegnato nell’accoglienza, nel perdono, nello stendere concretamente la mano a chi è nel bisogno?

    Ascoltiamo la Parola che ci richiamerà a ciò che è fondamentale perché una celebrazione non si traduca in un rito staccato dalla vita, e ad un gesto sacrilego che ritorna a condanna per chi lo compie.

    “Fa’ o Gesù, che ti riconosciamo sempre nell’Eucaristia, che ti riconosciamo diventando noi stessi pane spezzato, pane acceso nella notte di questo mondo.Donaci quel fuoco, quella passioni d’amore per il Padre che ti ha portato a consegnare la vita, a spogliarti di te stesso per la salvezza di tutta l’umanità” (Card. Carlo M. Martini).

    Lectio

    Se nei primi capitoli Paolo loda la comunità di Corinto per la fedeltà ai suoi insegnamenti e per la vivacità di questa nuova comunità, ciò non toglie che in essa purtroppo si verifichino situazioni che la pongono in contraddizione con la fede professata.

    I cristiani di Corinto, sulla linea delle comunità palestinesi, celebravano l’Eucaristia nelle loro case nel contesto di un pasto fraterno che Paolo chiama “Cena del Signore”: l’ “agape”. L’intenzione era ottima: l’uso del banchetto fraterno che precedeva la celebrazione aveva lo scopo di ricordare il contesto in cui Gesù istituì l’Eucaristia, inoltre esso aveva come scopo l’andare incontro alle necessità dei poveri della comunità con i quali si condividevano i propri averi (cfr At 6,1).

    Ma cosa capita a Corinto? Il problema è riferito dalla “gente di Cloe” (cfr 1,11) che si è recata da Paolo a Efeso per informarlo sull’andamento della comunità e dei suoi problemi. Le riunioni si “svolgono al peggio” (v 18). È un giudizio pesante dettato dal fatto che le celebrazioni eucaristiche sacramento di comunione con Cristo e i fratelli sono vissute tra eclatanti divisioni: “sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni (skismata) tra voi” (v.18). Una eucaristia vissuta nella divisione è una eclatante contraddizione per cui non può essere definita vera eucaristia:“il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (v. 20).

    Ma cosa avveniva concretamente? Sappiamo che uno dei punti deboli della comunità di Corinto era la presenza di alcune fazioni al suo interno: “Io sono di Paolo… io di Apollo… io di Cefa…” (cfr 1,12ss). Questi gruppuscoli si ripresentavano anche nelle sinassi cosicché nello stesso locale i ricchi facenti parte probabilmente del partito di Apollo facevano crocchio a se stante, e così anche gli altri. Tutti portavano da mangiare e bere ma si rifiutavano di condividere il pasto. Alla fine ci si ritrovava con chi era ubriaco con chi, povero, non aveva mangiato e bevuto pressoché nulla: “uno ha fame, l’altro è ubriaco” (v. 21). L’agape si trasforma in baccanale per gli abbienti e a un umiliante digiuno per i poveri.

    Paolo di fronte a questo scandalo denuncia che questa “cena” non è la “cena (deipnon) del Signore” ma un “proprio pasto (deiponon)” che non ha nulla a che fare col primo. La loro celebrazione si trasforma in una vera e propria profanazione. Come è possibile con questo atteggiamento condividere lo stesso pane eucaristico?

    A questo punto è meglio che ciascuno mangi a casa sua per non offendere i fratelli: “Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo!” (v. 22).

    Si tratta di una grave contraddizione che getta il “disprezzo” sulla Chiesa, e che dovrebbe “far vergognare” chi la compie. L’Eucaristia è vera “Cena del Signore” (v. 20) realtà troppo sacra e centrale per la vita della comunità perché possa essere esposta al rischio della profanazione come avviene con l’agape di Corinto.

    Per richiamare su questo importante punto la comunità a Paolo non resta che riannunciarne il mistero. Nei vv. 23-26 egli riporta il racconto dell’istituzione eucaristica da parte di Gesù alla vigilia della sua passione. Si tratta di un testo di fondamentale importanza in quanto è la più antica testimonianza del gesto compiuto da Cristo. Paolo fa risalire quanto annuncia al Signore stesso, ovvero risale direttamente a lui tramite la “traditio apostolica”: “ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”. Parafrasando: “Ho ricevuto da una tradizione che risale al Signore ciò che vi ho trasmesso nei termini in cui l’ho ricevuto io stesso”. Si tratta di un annuncio fatto con una straordinaria autorevolezza! Nel testo viene sottolineata soprattutto la dimensione sacrificale dell’eucaristia attraverso le parole pronunciate sul pane “che è per voi” e sul “calice della nuova alleanza”. Il “fate questo in memoria di me” deve significare nuovamente per i cristiani di Corinto accogliere l’Eucaristia come sacramento del dono totale della vita di Cristo a noi e di noi ai fratelli. Il che ovviamente deve portare al superamento di ogni divisione e rifiuto. Non “riconosce” (v. 29) il Corpo del Signore colui che non ne riconosce lo spessore di dono da comunicare anche agli altri.

    È  un incontro comunitario e personale con il Signore nel segno del comunicare insieme all’unico corpo e all’unico calice cosa che esige per tutti un giusto discernimento, il soppesare seriamente le sussistono le condizioni perché si possa partecipare in verità alla comunione col Signore. Se questo non fosse allora “chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore” (v 27). A questo punto l’apostolo fornisce una prima formulazione normativa circa i requisiti necessari per ricevere degnamente e con frutto il “corpo del Signore”: “Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice” (v. 28). Qui l’esaminare se stessi equivale a saper giudicare la propria vita alla luce del comandamento del Signore circa l’amore gli uni per gli altri (cfr Gv 13,34).

    Il ricevere indegnamente il Corpo di Cristo fa sì che si vada incontro a “malattie” e “morti” (v. 30). Questi castighi sono lezioni pedagogiche che il Signore infligge perché la comunità non venga poi “condannata” definitivamente insieme col “mondo” per non aver “riconosciuto il Cristo”.

    Paolo conclude questa ammonizione con una norma disciplinare che consiste prima di celebrare l’agape nell’“aspettarsi gli uni gli altri” (v. 33) probabilmente lo scopo è quello di evitare che previamente si formino gruppuscoli a se stanti. Il fatto che l’apostolo richiami alla convenienza di mangiare prima a casa propria non si comprende bene se è abolizione definitiva del banchetto conviviale o una semplice condanna del suo abuso. In ogni caso già all’inizio del terzo secolo (Didaché, Giustino…) non troviamo più traccia del banchetto conviviale il che significa che la Chiesa prudentemente optò per la netta separazione tra la celebrazione eucaristico e l’agape fraterna al fine di salvaguardare la sacralità del rito perdendo però forse di vista la dimensione della condivisione fraterna.

    Paolo aveva preso nota che dentro la triste condizione della chiesa di Corinto vi è tuttavia una nota consolante: in mezzo a queste contraddizioni si evidenziano coloro che si sforzano di vivere autenticamente la loro fede: “È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi” (v. 19)

    Collatio

    Paolo non riporta nella sua lettera ai corinti il racconto dell’istituzione per descrivere semplicemente un rito o darne più precise istruzioni rubricali, lo fa per un motivo ben più grave: la comunità sta rischiando di stravolgere il significato autentico dell’eucaristia.

    Questa profanazione eucaristica è l’unica che esplicitamente viene condannata dalla sacra Scrittura e non consiste nell’aver rotto il digiuno o nell’aver divagato in “pensieri cattivi” non stando attenti al rito. Si tratta invece di un sacrilegio provocato da una celebrazione fatta in un contesto di divisioni e ingiustizie.

    Gli Atti degli Apostoli nei loro “sommari” ci presentano una comunità fervente che celebra l’eucaristia in una grande unità e concordia. Non ci sono solo pii sentimenti e propositi ma lì si tocca con mano una concreta condivisione che fa sì che l’eucaristia non sia una celebrazione di facciata: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere…Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,42-45; 4,32). In questa comunità l’eucaristia non si riduce ad un rito, ad una bella cerimonia staccata però dalla vita. Radunata  attorno alla mensa celebra nell’eucaristia una comunione che nata dall’ascolto della Parola si traduce in scelte concrete di vita. Infatti la “frazione del pane” (una dei nomi dati alla messa) che è il corpo di Cristo deve celebrare per essere autentico “rendimento di grazie a Dio” la disponibilità a spezzare a nostra volta insieme ai fratelli ciò che siamo e ciò che abbiamo.

    Il rischio che correva la comunità di Corinto può essere benissimo anche il nostro nell’anno di grazia 2010. Il pericolo loro e nostro è che l’eucaristia si risolva in rito sacro fine a se stesso, nel quale mettiamo a posto la coscienza perché si è “andati a messa”, mentre ci dimentichiamo (comodamente e forse non del tutto inconsciamente!) delle esigenze di comunione, di reciproca accoglienza e perdono che esso richiede perché non sia profanato alla radice.

    Già nella tradizione profetica troviamo invettive contro una falsa religiosità solo esteriore ma che trova risvolti di conversione nella vita: “Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui. Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso” (Is 58,4). E anche Gesù ribadirà fortemente le esigenze di una verità del culto che tenga presente il diritto di Dio ma nello stesso tempo quello del fratello che mi sta accanto: “Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24) .

    Nella notte del suo tradimento Gesù consegna nel pane spezzato e nel calice versato tutto se stesso, in un atto di amore “fino alla fine” (cfr Gv 13,1). Entrare nel mistero eucaristico, fare comunione con Cristo, significa far nostro il suo dono affinché sia lui a renderci capaci, a nostra volta, di spezzare noi stessi per i fratelli perché tutti diveniamo in Cristo un solo corpo: “A noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito” (Pregh Euc. III).

    I corinti tutto questo lo sapevano? Certamente sì! Eppure trovavano difficile attuare concretamente le esigenze che l’eucaristia comporta. Difficile per loro, difficile per noi, che ci illudiamo di vivere l’eucaristia solo perché avvolti in sentimentali atmosfere di incensi, luci e canti ed esatte rubriche senza però “esaminare noi stessi” al fine di eliminare le contraddizioni che partendo da una vita lontana dal vangelo profanano il rito. Quante eucaristia celebriamo in modo disinvolto tra divisioni e contrasti? Paolo esplode con violenza al fine di evidenziare la verità del mistero: celebrare l’eucaristia tra le divisioni e le ingiustizie non si può chiamare eucaristia! Diviene motivo di condanna! Poca attenzione poniamo al fatto che il nostro essere tenacemente attaccati a rancori, al rifiuto della condivisione, all’esclusione di uno o l’altro dei fratelli comporta immediatamente una nostra “scomunica” ovvero al nostro essere fuori dalla comunione con Cristo che deve impedirci di accostarci all’eucaristia se non vogliamo incorrere nella condanna. Non assistiamo forse ancora a divisioni quando il tal movimento, la tal associazione o gruppo rivendicano la “loro messa” apportando “giuste” motivazioni ma che alla luce del vangelo non reggono? Si pensa di poter far comunione con Cristo lasciando fuori dalla porta il fratello che non è dei “nostri”. Ricordiamo le parole forti con cui il vescovo Giovanni Crisostomo condannava a sua volta un’Eucaristia staccata dalla carità: “Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci il tuo fratello. Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno di condividere il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, se divenuto più misericordioso” (Omelia sulla Prima Lettera ai Corinti, 27,4)

    Si pretende un Cristo “tutto per noi e da celebrare tra noi”: questo è impossibile: non è questo un mangiare “la cena del Signore” ma solo la “nostra cena”. Non si può mangiare lo stesso corpo di Cristo senza desiderare ardentemente di divenire tutti “un solo corpo”. Sogno troppo augurandomi che in ogni comunità parrocchiale ci sia una sola eucaristia nella quale convergano tutti i movimenti, associazioni, gruppi e tutti gli altri cristiani in una testimonianza grande di unità e di fede nell’unico Signore e di accoglienza e riconoscimento gli uni degli altri? “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane “ (1Cor 10,16-17).  Sant’Agostino in una sua omelia ammonirà i suoi cristiani dicendo: “Vi si dice: “Il Corpo di Cristo”. E voi rispondete: “Amen”. Ricevete il vostro stesso sacramento. Siate dunque membra del Corpo di Cristo, perché sia vero il vostro “Amen” (sant’Agostino, Sermoni CCLXXII)

    San Giovanni nel suo vangelo non riporta il racconto dell’istituzione eucaristica. Apparentemente la trascura per narrare l’enigmatico episodio della lavanda dei piedi. Il gesto di Gesù è follia che profetizza il dono totale di sé sulla croce: il supplizio del servo. In realtà Giovanni descrivendo Gesù in ginocchio mentre compie col grembiule ai fianchi e l’asciugamano il gesto dell’ultimo servo annuncia alla sua comunità il cuore che deve animare ogni eucaristia.. Gesù ci invita a fare come lui: “Voi mi chiamate maestro e signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,16). Celebrare l’eucaristia è unirci a Cristo per fare della nostra vita un sevizio di noi stessi non solo a Dio ma anche ai fratelli soprattutto più piccoli. Questo è lasciar vivere in noi il Cristo eucaristico “corpo donato e sangue versato” e non era forse questa la valenza originaria del momento offertoriale che noi abbiamo ridotto ad una raccolta di un po’ di spiccioli per il riscaldamento della chiesa ola costruzione dell’oratorio?

    Gesù ha dato alla comunità dei discepoli il compito di testimoniare la fede non anzitutto attraverso dei bei riti trasmessi in mondovisione, ma molto più terra terra attraverso una vita intessuta di amore: “Da questo conosceranno se siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. Il primo paramento prezioso e l’abito bello che tutti sono mettiamo per la messa deve essere anzitutto il grembiule e l’asciugamano. Non dobbiamo preoccuparci di offrire nessun altro segno al mondo perché se questo non accade, anche se produciamo bellissime cerimonie, non facciamo altro che  gettare solo disprezzo sulla Chiesa Santa di Dio.

    Solo l’impegno della carità che scaturisce dalla fonte dell’eucarestia ci deve preoccupare. Potremo cantare con verità le antiche e stupende parole che la liturgia pone sulle labbra della chiesa il Giovedì Santo: « Ubi caritas et amor, Deus ibi est. Simul ergo cum in unum congregamur: Ne nos mente dividamur, caveamus. Cessent iurgia maligna, cessent lites. Et in medio nostri sit Christus Deus”.

    Oratio

    Rit. Dov’è carità e amore, lì c’è Dio.

    Ci ha riuniti tutti insieme, Cristo amore:
    godiamo esultanti nel Signore!
    Temiamo e amiamo il Dio vivente,
    e amiamoci tra noi con cuore sincero. (Rit)

    Noi formiamo, qui riuniti, un solo corpo:
    evitiamo di dividerci tra noi:
    via le lotte maligne, via le liti,
    e regni in mezzo a noi Cristo, Dio. (Rit)

    Chi non ama resta sempre nella notte
    e dall’ombra della morte non risorge;
    ma se noi camminiamo nell’amore,
    noi saremo veri figli della luce. (Rit)

    Nell’amore di colui che ci ha salvati,
    rinnovati dallo Spirito del Padre,
    tutti uniti sentiamoci fratelli,
    e la gioia diffondiamo sulla terra. (Rit.)

    Posted by attilio @ 09:33

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