• 24 Set

    “Tutti là sono nati”

    Lectio del Salmo 86

    di padre Attilio Franco Fabris

    Si calcola che il fenomeno dell’immigrazione abbia coinvolto in tutto il mondo in questi ultimi anni circa cento milioni di persone. E’ una cifra impressionante che dice un cambiamento epocale e inarrestabile non solo del volto del nostro “bel paese” ma di ogni nazione industrializzata. È un mondo che sta cambiando volto a ritmi vertiginosi portando con sé certamente tante problematiche di inserimento e dialogo tra culture diverse, cosa certo di non di facile soluzione, ma nello stesso tempo nuovi orizzonti certo ancora sconosciuti ma colmi di speranza. Non si può perciò negare all’immigrazione così massiccia la connotazione di uno dei “segni dei tempi” che il Concilio Vaticano II invita a imparare a leggere con occhi di fede scorgendovi un disegno divino.

    Giovanni Paolo II, alla vigilia dell’anno giubilare del duemila nel suo “Messaggio per la Giornata dell’Immigrazione scriveva”: “l’umanità è contrassegnata da fenomeni di intensa mobilità, mentre negli animi si va sempre più affermando la consapevolezza di appartenere ad una sola famiglia. Le migrazioni, volontarie o forzate, moltiplicano le occasioni di scambio tra persone di culture, di religioni, di razze e di popoli diversi. I moderni mezzi di trasporto collegano sempre più rapidamente il pianeta da un punto all’altro e ogni giorno le frontiere vengono oltrepassate da migliaia di migranti, di rifugiati, di nomadi, di turisti”.

    Tutta la tradizione biblica e cristiana riconosce nello straniero, ovvero nell’immigrato da qualsiasi parte provenga, una connotazione sacra. Non è forse dinanzi ai tre sconosciuti viandanti che Abramo si prostra implorando che si fermino presso di lui? “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo” (Gn 18,1-2). La Lettera agli Ebrei, ricordando questo episodio, ammonirà le comunità cristiane: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Ebr 13,2) e questo anche alla luce anche delle parole  stesse di Cristo che dice di riconoscersi nel forestiero: “io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25,35).

    Chiediamo allo Spirito di liberarci dalle nostre grettezze e paure, egli ci insegni a spalancare le porte, ad allargare le braccia come Cristo sulla croce, pronti ad accogliere il pellegrino che bussa alla porta per essere riconosciuto prima ancora che come straniero, come uomo con la dignità di figlio di Dio: “Signore insegnaci a non amare soltanto noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano. Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama. Concedici la grazia di capire che ad ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice, protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che sono pure tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo. Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo. E non permettere più, o Signore, che noi viviamo felici da soli. Facci sentire l’angoscia della miseria universale, e liberaci dal nostro egoismo. (Raoul Follerau).

    Lectio

    Il testo originale del salmo 86 ci è pervenuto alquanto compromesso e quindi in parte incerto. Alcuni passaggi si presentano molto problematici nella loro ricostruzione e interpretazione. Lo stesso contesto dell’utilizzo del salmo non è sicuro, forse veniva cantato in occasione di solenni processioni verso il tempio. Come se ciò non bastasse anche l’interpretazione di fondo di tutto il salmo si presenta problematica: si tratta della proclamazione della regalità di JHWH sopra tutte le nazioni? È una proclamazione di Gerusalemme madre di tutti gli israeliti giudei e proseliti sparsi nella diaspora? Oppure è da leggere come visione profetica di una Gerusalemme città comune che diverrà, alla fine dei tempi punto di convergenza e di unità di tutti i popoli attorno all’unico Dio? Probabilmente è da preferirsi quest’ultima interpretazione in quanto il salmo 86 si colloca all’interno nella tradizione dei profeti del post esilio, in modo particolare con riferimento al secondo Isaia (cfr es 2.2ss).

    Ma cerchiamo ora di entrare nel nostro testo.

    Anzitutto il nostro salmo appartiene alla serie dei salmi che hanno per tema la lode per la città di Sion, la sposa di JHWH, posta sul “santo monte” e “scelta” da Dio “come sua dimora” (cfr Sal 46,48, 76,84).

    Sion possiede una grande solidità, è “città salda” (Sal 121,3) perché “le sue fondamenta sono sui monti santi” (1b). Affermare la santità del monte-roccia sul quale è edificata equivale ad affermare che Sion è fondata su Dio stesso. Anche nel salmo 45 viene espressa la medesima certezza: “Dio sta in essa: non potrà vacillare” (v.5;). Fondamenta incrollabili perché fondate da Dio stesso: “Il Signore ha fondato Sion” (Is 14,32; Sal 77,69). Anche Cristo quando vorrà ribadire la solidità della Chiesa fondata sulla fede userà la stessa immagine (cfr Mt 16,18; Mt 7,24).

    Il Signore “ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe” (v. 2): la scelta di Sion come dimora è data unicamente dalla gratuità dell’amore di elezione che induce JHWH a scegliere fra tutte le varie possibilità proprio la tribù di Giuda (“Ripudiò le tende di Giuseppe, non scelse la tribù di Efraim;  ma elesse la tribù di Giuda, il monte Sion che egli ama” Sal 77,67-68). Probabilmente risuona qui originariamente l’eco del campanilismo tra le tribù del nord e del sud.

    La scelta di Sion come dimora di JHWH non è fine a se stessa, ogni elezione è in vista di una missione. Sion la scoprirà cammin facendo di certo al v. 3 viene proferita nei suoi confronti una promessa che verrà successivamente definita: “di te si dicono cose stupende, città di Dio”. Quali le cose stupende che Dio opererà? Esse sono descritte nel corpo centrale del salmo.

    Ricorderò Raab e Babilonia fra quelli che mi conoscono; ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati” (v. 4). Il tempo è al futuro. È il tempo della promessa; Dio “ricorderà” (lett = “si inscriverà”). Cosa ricordare? Dio riconoscerà l’Egitto (qui eufemisticamente definito con l’appellativo di Raab, il nome di un mostro marino – cfr Sal 89,11- che passò a designare l’Egitto con la sua brama di distruggere Israele) e Babilonia (Babel che viene a rappresentare non solo l’impero babilonese ma tutti i regni dell’oriente mesopotamico) fra i popoli che lo “conosceranno”. Ora “conoscere Dio” è espressione di per sé riferita solo agli israeliti fedeli e perciò oggetto del suo amore in contrapposizione a tutti gli altri popoli che “non conoscono Dio”. A Raab e Babel vengono aggiunte altre nazioni: la Filistea (Palestina) e la città di Tiro che rappresentano i popoli pagani vicini ad Israele sul litorale, ed infine Etiopia (lett. Cus) il paese che nell’immaginario geografico del tempo rappresenta l’estremo sud.

    Tutte queste popolazioni sono sempre state viste, dal piccolo e insignificante regno di Giuda, come potenziali nemici  e in quanto nazioni pagane estromesse dall’elezione divina e perciò dal suo amore.

    Ma qui – scandalosamente – di tutte queste nazioni la profezia afferma che un giorno potranno affermare di avere tutti sorprendentemente, come Israele, la stessa madre, ovvero la stessa città di Sion in cui tutti potranno dire di essere nati:“tutti là sono nati”. Il che equivale che tutti potranno affermare di essere appartenenti al popolo di Dio.

    Si tratta di un assunto teologico ben presente nel messaggio profetico post-esilico, soprattutto nel deuteroisaia: “Esulta, o sterile che non hai partorito, prorompi in grida di giubilo e di gioia, tu che non hai provato i dolori, perché più numerosi sono i figli dell’abbandonata che i figli della maritata, dice il Signore. Allarga lo spazio della tua tenda, stendi i teli della tua dimora senza risparmio, allunga le cordicelle, rinforza i tuoi paletti, poiché ti  allargherai a destra e a sinistra e la tua discendenza entrerà in possesso delle nazioni, popolerà le città un tempo deserte. (54,1-3; cfr 2,2ss; 49,19.22; 66,7-11). Si tratta del compimento della promessa fatta ad Abramo: il popolo che da lui nascerà è destinato a divenire sorgente di “benedizione” ovvero di riunificazione per tutta l’umanità divisa: “Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gn 12,3).

    Sarà una famiglia allargata che troverà la sua stabilità nel fatto che il suo punto di coesione non sono progetti o ideali umani bensì la presenza fondante di Dio: “l’Altissimo che la tiene salda” (v.5).

    Questa comune appartenenza ad una stessa “madre” è sottoscritta da Dio stesso nel “Libro dei Popoli” (v. 6).  Ora la registrazione ufficiale dei veri israeliti fu una delle grandi preoccupazioni dell’epoca del postesilio (cfr “cercarono il loro registro genealogico, ma non lo trovarono; allora furono esclusi dal sacerdozio” Esdr 2,62; cfr Ez 13,9) al fine di recuperare una loro precisa identità e storia. Ora tale preoccupazione sul piano spirituale inaspettatamente si evolve: in questo libro non saranno inscritti solo i pii israeliti bensì tutti i popoli che aprendosi alla fede hanno ricevuto da JHWH una comune filiazione, un’ “adozione a figli” da parte della stessa madre Sion e per suo tramite dello stesso Dio. In questo libro si affermerà di ogni popolo: “Là costui è nato” (V. 6b): è l’atto di registrazione con cui un individuo o un popolo viene riconosciuto formalmente come nativo della località in questione.

    Sono queste le “cose stupende” promesse a Sion e a cui accennava il salmista all’inizio del salmo. “Cose stupende” che non possono non far sussultare di gioia di cui la danza è espressione peculiare. Al riconoscimento di questa comune affiliazione si farà festa (cfr Sal 30,12;149,3); si intavolerà una danza gioiosa che vedrà coinvolti tutti, nessuno escluso. La promessa di Dio ricostruirà l’unità della famiglia umana disgregata dal peccato facendo sì che tutti si riconoscano figli di uno stesso Padre e generati da una stessa madre. Danza accompagnata dal ritornello di un canto: “Sono in te tutte le mie sorgenti” (v.7) ovvero; “Sion è la mia origine, la mia patria”. E’ il canto che risuonerà alla fine della storia quando la profezia del salmo finalmente si sarà adempiuta: “Cantavano un canto nuovo: Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazioni e li hai costituiti per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra». (Ap 5,9s; cfr 7,9; 21,3)

    Meditatio

    Utopia l’unità fra tutti i popoli in un’unica famiglia, in cui tutti si riconoscono fratelli con pari dignità e diritti, profetizzata dal salmo 86? Nelle pagine di cronaca di tutti i giorni troviamo tutte le fatiche e le contraddizioni in cui le nostre società “progredite” stanno andando incontro nella relazione con gli “extra-comunitari” (già la definizione dice molto!). Tensioni che giungono a sfociare in violenze, in vere e proprie “caccia allo straniero”. Non raramente degenera in vera e propria xenofobia!I  problemi di convivenza, problemi nel mondo del lavoro e nell’ambito delle scuole sembrano non trovare sbocco al punto che le due parti spesso si irretiscono nelle loro posizioni. Sono problemi non certo di facile soluzione che covano sotto la cenere e rischiano sempre di esplodere e che la società e la sua legislazione devono ovviamente affrontare e non continuamente rimandare. Il problema è: con quali criteri?

    Eppure, su un punto  dovremmo trovare un accordo e sul quale tuttavia molti ancora non si “rassegnano”: sappiamo che l’integrazione è ormai l’unica vera strada percorribile, non si può tornare indietro, la storia va avanti comunque. Il cristiano, e ancor più la comunità religiosa, si deve allora realisticamente interrogare, alla luce della Parola di Dio, su come porsi dinanzi a questo problema, che vorrei definire nello stesso tempo come “opportunità”.

    La Parola di Dio ci indica da sempre la direzione del progetto di Dio: fare di tutti i popoli un’unica famiglia, la famiglia di Dio che dal momento di Caino e di Babele è andata disgregandosi. Questa “grande famiglia” finale è già profetizzata, nonostante tutti i suoi limiti e fatiche, dalla grande madre Chiesa, la nuova città di Sion fondata sulla roccia che è Cristo, nella quale tutti indistintamente ricevono il dono di sentirsi figli di uno stesso Padre: “Tutti là sono nati”. Come non ricordare a questo proposito la splendida affermazione della Lumen Gentium? “Il popolo messianico(la Chiesa) pur non comprendendo in atto tutti gli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (LG 9). La Chiesa madre nasce il giorno di Pentecoste proprio sul monte Sion ed è subito spinta dallo Spirito ad annunciare le “cose stupende” operate da Dio in lei per “ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2,5). “La Buona Notizia è annuncio dell’Amore infinito del Padre manifestatosi in Gesù Cristo che è venuto nel mondo “per riunire insieme i figli di Dio dispersi” (Gv 11,52) e radunarli nell’unica famiglia, nella quale Dio ha posto la sua dimora fra gli uomini (Ap 21,3)” (Giovanni Paolo II, Mess. Giorn. Immigr. 1999).

    Questa la destinazione finale. Ma il cammino, iniziato con Abramo, verso questa umanità “meticciata” – mi si perdoni il termine – incontra, come dicevamo, molteplici forme di resistenza. Anche a livello legislativo-demagogico si rischia di operare solo rigide e categoriche opposizioni. Sono resistenze e opposizioni che nascono sempre e solo dalla paura. Una paura a volte indefinita nei confronti del “diverso”, a volte incentrata e motivata da “ragioni” che a rigor di logica non tengono. Paura del confronto, di perdere privilegi che si ritengono propri ed esclusivi per noi “razza migliore”. Di fronte all’immigrazione e alla xenofobia dobbiamo prendere atto che tutti i buoni principi dell’umanesimo illuminista e delle ideologie umaniste non hanno forza, conoscono un scandaloso fallimento. La paura vince!

    L’immigrazione in effetti pone in discussione tanti nostri stili di vita consumistici ed egoistici, essa è denuncia posta sotto i nostri occhi di ingiustizie cui tutti, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito a creare. La globalizzazione ha avuto effetti estremamente deleteri nella ripartizione dei beni e delle risorse, paesi ricchi lo sono diventati ancor più a discapito di quelli più poveri. Nulla di straordinario o di scandaloso allora vedere imbarcazione di immigrati clandestini sbarcare ripetutamente sulle nostre coste, messicani oltrepassare la recinzione del confine di stato con gli Stati Uniti, ragazzini percorrere abbarbicati sotto i camion o dentro celle frigorifere migliaia di chilometri per raggiungere i nostri paesi in cui sognano di trovare tutto ciò che da loro non c’è. Con quale diritto li condanniamo? Paolo Vi nell’Enciclica “Octagesima Adveniens” già riconosceva profeticamente l’urgenza di un indispensabile cambio di mentalità per poter affrontare correttamente questa grande svolta della storia dell’umanità:  “E’ urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla immigrazione, favorisca la loro integrazione… è dovere di tutti – e specialmente dei cristiani – lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura” (n. 17)

    Quello che sta avvenendo è una grande opportunità di conversione per la nostra fede e di ripensamento per i presupposti culturali ed economici della nostra cultura. Scriveva Giovanni Paolo II: “Il processo di globalizzazione può costituire un’opportunità, se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana. Se, al contrario, si aggravano le disuguaglianze, le popolazioni povere sono costrette all’esilio della disperazione”.

    Dentro questo dramma dobbiamo starci come discepoli di Gesù, non abbiamo diritto comodamente di schierarci con chi lo straniero non lo vuole perché da fastidio. Non dobbiamo invocare che “ritorni da dove è venuto!”. Anzi, capovolgendo tanta prospettiva “mondana” che sembra emergente, stiamo forse assistendo ad un provvidenziale lavoro della mano di Dio perché il cammino verso l’unità di tutta la famiglia umana possa concretizzarsi ancor più: “Cresce il sentimento di comunanza di destino tra tutte le nazioni. Le nuove generazioni avanzano nella convinzione che il pianeta sia ormai un “villaggio globale” e allacciano relazioni di amicizia che superano la diversità di lingua o di cultura” (Giovanni Paolo II).

    Rimane un problema di fondo. Quali le fondamenta da porre perché si costruisca questa nuova umanità? Quali saranno i “monti santi” su cui costruire questa nuova Sion? Basteranno le fondamenta di una “morale laica”, o d’un generico appello ai “valori umani di convivenza”? Ne dubito. Una reale reciproca accoglienza possono scaturire dal fatto che l’umanità alzi lo sguardo e ritrovi una sorgente che la trascenda e nella quale tutti si possano ritrovare con una eguale dignità di figli e dunque di fratelli. E questo può essere dato solo da Dio.

    Ecco allora il grande compito delle nostre comunità dinanzi a queste sfide. A me come discepolo di Gesù saper accogliere come fratello ogni uomo e donna riconoscendo a ciascuno il suo diritto e la sua dignità, che non scaturisce da una mia filantropia o da un mio atto di generosità, ma dal fatto che riconosco in lui un figlio di Dio come me. Di questa apertura tante realtà ecclesiali sono già ora un grande segno profetico di speranza e di provocazione per il mondo e ne dobbiamo ringraziare il Signore. Ne va infatti della credibilità del Vangelo sapendo che la posta è alta: Ammoniva Giovanni Paolo II in un suo messaggio:  “Come potranno i battezzati pretendere di accogliere Cristo, se chiudono la porta allo straniero che si presenta loro? “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1Gv 3,17)” (1999).

    Oratio

    A causa del seno materno differente,
    o perché i racconti della tua infanziati hanno abituato
    ad un’altra lingua,non chiamarmi “straniero”.
    Il tuo grano è identico al mio,
    la tua mano è identica alla mia,
    il tuo fuoco è identico al mio,
    e tu mi chiami “straniero”.
    Perché sono nato in un altro popolo,
    perché conosco altri mari,
    perché un giorno, ho lasciato un altro porto,
    non chiamarmi “straniero”.
    È lo stesso grido che portiamo
    e la stessa fatica che condividiamo,quella che ci sfianca dalla notte dei tempi,
    quando non esistevano frontiere,
    prima che arrivassero quelli che dividono e uccidono,
    quelli che rubano, quelli, gli inventori di questa parola: “straniero”.
    Triste e fredda parola, che unisce oblio ed esilio.
    Non chiamarmi “straniero”.
    Guardami bene negli occhi, ben al di là dell’odio,
    dell’egoismo e della paura
    e tu vedrai che io sono un uomo.
    No! Non posso essere “straniero”.

    Posted by attilio @ 09:23

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