• 27 Mar

    Maestro dove abiti?

    Lectio di Gv 1,35-42

     

     di p. Attilio Franco Fabris

     

    La sequela di Cristo non si improvvisa mai, perché è sempre il frutto di un paziente cammino di conformazione a lui. È frutto di un incontro che nasce dalla fame dell’uomo di una parola “sostanziale” e “sapienziale” che dia finalmente gusto e significato alla sua vita, alla sua gioia, al suo dolore e alla sua morte. È frutto di una ricerca che sfocia nello stupore di una risposta che gli giunge come dono dall’esterno, come il pane e l’acqua che Elia si trovò accanto al suo risveglio nel suo disperato pellegrinaggio al monte di Dio.
    È un incontro possibile perché desiderato e programmato anzitutto da Dio stesso che “ama tutto ciò che ha creato“. Nella rivelazione biblica si narra di come Dio ha risposto, a partire da Abramo, al bisogno dell’uomo di una casa, di un paese, dove “abitare” con lui: “a tutti sei venuto incontro perché coloro che ti cercano ti possano trovare” (Preghiera Eucaristica III).
    L’incontro con Cristo, nel nuovo testamento, segna per chi lo incrocia sulla strada questa scoperta contrassegnata dallo “stupore e dalla gioia di una salvezza ritrovata” (Preghiera eucaristica III). Esso incide nel cuore di coloro che se ne lasciano toccare una svolta indelebile che si incarna nella memoria di tutto il loro essere: “erano circa le quattro del pomeriggio“. Finalmente l’uomo ha trovato “casa” e di che soddisfare la sua sete: “Chi ha sete venga a me e beva, chiunque crede in me fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno“.
    Invochiamo il dono della sapienza perché, attraverso l’ascolto della Parola, susciti in noi la stessa sete dei primi discepoli: “La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la voce; dall’alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe e gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno” (Proverbi 1,20-25).

    Lectio

    Nel brano ascoltato abbiamo sentito narrare la chiamata, da parte di Gesù, dei primi tre discepoli: di Andrea e dell'”altro discepolo” (si tratta di quello che verrà definito come “il discepolo che Gesù amava”? Si tratta forse di Giovanni? Cf 21,20), e infine di Pietro condotto dal fratello Andrea a colui che subito egli definito come: “Il Messia”. Nel brano successivo verrà narrata la chiamata di Filippo e infine di Natanaele (vv.43-51).
    L’evangelista, in questo secondo capitolo, scandisce il susseguirsi degli avvenimenti riguardanti la testimonianza del Battista e la chiamata dei discepoli in tre giornate (cfr “Il giorno dopo“: v. 29.35.43). L’episodio della chiamata dei primi tre si colloca precisamente al “secondo giorno“, dopo la solenne testimonianza del Battista nei confronti di Gesù presentato come l’ “Agnello di Dio” (v.29).
    Ora Giovanni il Battista aveva al suo seguito una schiera di discepoli che avevano aderito alla sua predicazione tutta improntata sulla necessità della conversione in vista del prossimo avvento del Regno di Dio nella persona del Messia atteso: “Viene uno dopo di me al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo” (v. 27). Tra questi suoi discepoli si collocano i futuri primi discepoli di Gesù di Nazaret.
    La scena dell’incontro di Gesù con il Battista e con i primi tre discepoli avviene “al di là del Giordano” (vv 28.35): siamo probabilmente nei presso Betania della Trangiordania dove il battezzatore svolgeva generalmente la sua missione profetica.  È impossibile districarsi cercando di trovare delle concordanze tra il racconto della chiamata fatto dal quarto evangelista e i tre sinottici. Questi ultimi infatti collocano la chiamata dei primi discepoli sulle rive del lago di Tiberiade presentandoli come semplici pescatori e non come discepoli del Battista (cf Mc 1,16-20; c’è tuttavia da menzionare il fatto che in Atti 1,21 Luca ribadirà che gli apostoli per essere tali devono essere stati testimoni di Cristo a partire proprio “dal battesimo di Giovanni“). Tutte queste divergenze non ci inquietano ma stanno ad indicare che in tutti questi testi di vocazione l’intento degli scrittori è prevalentemente teologico e cristologico.
    In questo “secondo giorno”, dopo che Giovanni il Battista aveva già indicato a Israele Gesù come: “L’agnello di Dio… ecco colui del quale io dissi” (v. 29s),  il battezzatore indica Gesù negli stessi termini direttamente ai suoi (v. 36).
    Il ruolo che assume Giovanni in questo capitolo è fondamentale: infatti l’incontro con Gesù da parte dei primi due discepoli è mediato da lui che qui chiaramente appare nella sua qualità di testimone. Egli fà da ponte tra le due economie della salvezza e fa’ si che si passi dalla profezia al vederne con i propri occhi il suo compimento.
    Nel nostro testo lo sguardo del Battista è attratto subito dal nazareno: “fissando lo sguardo su Gesù” (v. 36). Il verbo usato indica uno sguardo intenso e penetrante (“emblèpas“) capace di andare al di là del semplice “vedere”. Giovanni ci viene presentato fermo sulle rive del fiume: “stava là” (v. 35), una situazione dissimile da quella di Gesù che invece ci viene presentato in cammino: “passava“. La missione di Gesù è un costante camminare “verso” Gerusalemme. Ormai l’antica alleanza ha concluso il suo lungo percorso di preparazione, ha raggiunto la sua meta fermandosi, ha condotto l’uomo alla soglia dell’incontro a tu per tu con Dio.
    A Giovanni allora non resta, con grande umiltà e verità, che ribadire questa sua testimonianza ai suoi discepoli: “Ecco l’agnello di Dio” (v. 35). È splendida questa testimonianza del Battista che riconoscendo il suo ruolo di ponte, di “voce della Parola” (sant’Agostino), si fa da parte: egli non è geloso, anzi spinge i suoi ad andare oltre la sua persona: Egli deve crescere e io invece diminuire” (3,30). I discepoli “sentendolo parlare così seguirono Gesù” (v. 37): il verbo “parlarelaluntòs” è espressione che implica una rivelazione. Questa rivelazione smuove i due discepoli a lasciare il loro primo maestro. “Seguirono“: il verbo “èkoluthesan” è quello specifico per indicare il discepolato.
    La reazione da parte di Gesù nei confronti dei due che iniziano a seguirlo si risolve in una domanda semplice, ma come ogni parola estremamente semplice è capace di andare all’essenziale, al cuore della realtà: “Che cercate?” (v. 38). Se l’iniziativa della sequela sembra apparentemente appartenere ai due discepoli, il fatto che sia Gesù per primo a rivolgere loro la parola sta ad indicare come sia lui in verità il protagonista della chiamata. Gesù stesso lo ricorderà: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (15,16). Venendo al vero usato “cercare – thètein” nella sacra Scrittura lo troviamo usato con accezioni vastissime: la sua radice aramaica significa sia “cercare” come “volere”. In questo caso l’equivalente della domanda posta da Gesù è: “Che cosa volete?”. In ogni caso nella Scrittura l’invito rivolto all’uomo che teme Dio è di “cercare” il “volto di Dio”, o in altre parole il dono della Sapienza (Pr 8-9). Sembrerebbe dunque che l’evangelista ponga qui un sottile, benché fortissimo, rapporto tra Gesù quale “icona di Dio” (Col 1,15) e la Sapienza veterotestamentaria.
    Alla domanda: “Che cercate?” i due discepoli rispondono anzitutto con l’appellattivo di “Rabbi” (v. 38). Si tratta di un titolo onorifico che originariamente in aramaico stava a significare “Mio grande signore” (da “rab” = grande). La traduzione data dall’evangelista non è dunque fedele a livello letterario, tuttavia è un titolo che gli è molto caro: lo usa ben otto volte ma solo nella prima parte del vangelo quella denominata “Libro dei Segni”. Nella seconda parte (il “Libro della Gloria”) il titolo dato a Gesù sarà più esplicitamente di fede: “Kyrios – Signore“. Vi è una perciò espressa una crescita di comprensione da parte dei discepoli (cfr 13,13-14) nei confronti di colui che seguono.  Chiamandolo “rabbi” i due riconoscono ed esplicitano la loro attesa di una parola salvifica che intravedono possibile sulla labbra di Cristo, e che neppure Giovanni ha potuto loro donare. Ma se Gesù può offrire loro un tale definitivo “insegnamento” da questa sua parola non può non scaturire la sequela! �
    I discepoli domandano: “Dove abiti (méneis)?” (v.38). Non è solo una curiosità geografica. La domanda sottindente tutta la ricerca da parte dell’uomo, angosciato dalla sua finitudine, di trovare ciò che è “eterno” fissandovi la sua dimora.
    La risposta di Gesù è quasi lapidaria: “Venite e vedrete” (v. 39). Nel quarto vangelo i verbi “venire” e “vedere” sono espressioni tecniche per indicare la chiamata e l’azione del discepolo: questi deve andare a Gesù e vedere, ossia aprirsi alla sua rivelazione. È Gesù che invita ad andare a lui e si va a lui al fine di poter “vedere” ovvero accostarsi alla sua esperienza (cfr 1Gv 1,1-5).
    I due “andarono… e restarono (“émeinan”) con lui“: è il caso di sottolineare l’insistenza tipica di Giovanni del verbo “ménein – rimanere, restare, abitare…“. Esso sta a significare una strettissima comunione di vita che è riflesso di quella che sussiste anzitutto tra il Figlio e il Padre e che viene estesa, partecipata, a tutti coloro che credono in lui. Per il discepolo si tratta di un “permanere-restare” che scaturisce anzitutto da un ascolto costante della Parola: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete (méinete) fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli” (8,31).
    A questo punto troviamo una precisazione che un po’ stupisce: “Era circa l’ora decima“, ovvero circa le quattro pomeridiane. Come mai questa precisazione cronologica? Essa sembra essere posta al fine di sottolineare che quel momento è indelebile nella memoria perché ha segnato una svolta nella vita dei discepoli. Altri esegeti la interpretano invece in modo simbolico: dieci sta a dire la pienezza del tempo ormai giunto. Per altri starebbe a significare l’ora del tramonto, con riferimento all’antica alleanza rappresentata dal Battista che prelude al giorno nuovo.
    Giungiamo così all’ultimo passaggio (vv.40-42): Andrea si reca dal fratello Simon Pietro per annunciargli lo straordinario incontro avvenuto con Gesù. Le parole di Andrea al fratello sono già un chiaro indizio di fede: “Abbiamo trovato il Messia“. Se prima era solo un “rabbi”, dopo “lo stare” con lui egli è ora il “messia“. Vi è una crescita di fede che deriva dal fatto di “abitare” con Cristo, ovvero di conoscerlo sempre più profondamente. Per il quarto evangelista è dunque Andrea che riconosce per primo in Gesù il Messia e non Pietro come nei sinottici (cf Mc 8,31).
    Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Cefa“: queste sono le prime parole indirizzate da Gesù a Simone. Simone viene definito “figlio di Giovanni” in relazione forse al fatto dell’essere anch’egli discepolo del Battista? Alcuni esegeti lo sostengono. Poi Gesù compie un gesto di grande autorità cambiandogli il nome: “Ti chiamerai Cefa”. Nella tradizione biblica un nome nuovo sta a dire un mandato da assumere, un cambiamento nella vita e nel destino di una persona. Ma in questo caso più che un nome si tratta di un soprannome che può stare ad indicare l’essere duro come una pietra sia in senso amichevolmente ironico: “Simone Testadura” ovvero colui che difficilmente si sposta dalle sue idee, oppure in senso più spirituale: “solido come una roccia” (cf Mt 16,17s) in riferimento al mandato che Pietro dovrà assumere di “pascere il gregge” di Cristo con la sicurezza dettata dall’amore (21,15). 

    Collactio

     Le prime parola di Gesù sono una domanda che rivolge al futuro discepolo: “Che cercate?“. Nella “Regula Benedicti” l’abate al postulante pone la stessa domanda. Nel Battesimo avviene la medesima cosa: “Cosa chiedi?”. La domanda di Gesù non è una banale richiesta o curiosità al fine di sapere il motivo per cui i due gli stanno andando dietro. Si tratta invece di un interrogativo tutto teso a far emergere il bisogno fondamentale che soggiace alla coscienza di ogni uomo e che lo pone in cammino, in ricerca: è in definitiva far emergere il suo bisogno di salvezza. Se l’uomo avverte un bisogno di salvezza, al discepolo Gesù propone la sua sequela. Ai due decidere se “andare dietro” a Gesù per trovare risposta: “sentendolo parlare così, seguirono Gesù“.
    Alla luce di questo comprendiamo come il discepolo non è anzitutto chiamato ad “imitare” Gesù ma a seguirlo. Questo perché appaia chiaramente che l’opera della salvezza, la risposta al bisogno dell’uomo, è tutta sua e non nostra. Forse in una certa visione ascetica passata si insisteva troppo sul tema dell’ “imitazione”: questo però poteva far incorrere in un rischio molto pericoloso, quello dell’intendere la “sequela” in termini prettamente moralistici. Il tema dell’imitazione correva sull’onda di una sorta di competizione più che con il Signore con l’ideale di noi stessi; l’accento in questo caso era posto sulla scia di quello che noi dovevamo compiere per essere salvati più che sull’ascolto della sua Parola che salva. Gesù per il discepolo non deve essere tanto il modello da imitare quanto la persona con cui condividere l’esperienza di comunione di vita: solo così la sequela non si pone sulla scia della perfezione da seguire ma dell'”abitare con lui” che sta alla nostra porta e bussa!
    Il discepolo evidentemente cammina verso una sempre maggiore conformazione al suo Maestro e Signore, ma ciò che attua tale conformazione non è anzitutto il suo sforzo morale ma la docilità all’opera dello Spirito che Gesù stesso dona. E tale conformazione-sequela raggiungerà la sua completezza solo al di là della nostra esistenza quando “Dio sarà tutto in tutti“. Solo allora il discepolo avrà “seguito” Cristo non solo sino al Calvario ma anche nella sua resurrezione che lo conformerà pienamente a sé.
    Tutto questo esige tempo: la sequela non è opera di un giorno, di una decisione presa il giorno del battesimo o della professione. Essa non si improvvisa mai, ma domanda la pazienza del cammino quotidiano con tutte le sue fatiche, incertezze, cadute , entusiasmi. Ma è un cammino nel quale siamo educati dalla Parola, cesellati, il più delle volte dalle contraddizioni e sofferenze, ad immagine del nostro Maestro.
    In questo senso l’essere discepoli esige una conversione costante. Seguire Cristo, accogliere il suo invito: “Venite!” implica una decisione che struttura e qualifica fin nella radice più profonda l’esistenza del discepolo e della comunità. Ma in che consiste questa “metanoia”? Essenzialmente nel “rimettersi dietro” a Cristo ogni giorno, in ogni nostra concreta situazione di vita, domandandosi: cosa significa per me seguire Cristo qui e in questo momento? Infatti la tentazione sarà sempre quella di piegare, “sciogliere”, Cristo affinché sia lui a seguire noi e non noi lui. Pietro “Testadura” insegna (cfr Mt 16,23)!
    Questa conversione continua esige perciò una stabile e “rocciosa” fedeltà a Cristo ma nello stesso tempo una grande duttilità e creatività nell’incarnare tale fedeltà. Non si tratta di “eseguire” ma di… seguire! Purtroppo spesso ci accontentiamo più facilmente e comodamente di “eseguire” una sequela che non scombussola poi più di tanto la vita. Perché questo non avvenga è imprescindibile una sintonia, una comunione con Cristo: è ossia essenziale per il discepolo l’ “abitare con lui”, perché “nel rapporto con Dio, non ci si può impegnare fino ad un certo grado, perché Dio è proprio l’esatto contrario di quel che esiste in certo grado” (Kierkegaard, Diari).
    In quest’ottica comprendiamo come la sequela dell’unico Maestro non è identica per tutti. Essa è diversa per ciascuno, diversa nelle epoche, diversa nelle varie situazioni. Annalena Tonelli, uccisa in Somalia nell’ottobre 2003, lasciava ad esempio scritto: “Scelsi di essere per gli altri che ero una bambina e così sono stata e confido di continuare a essere fino alla fine della mia vita. Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: lui e i poveri  in Lui”.  La nostra sequela deve essere perciò riesaminata e riaccolta ogni giorno, alla luce di quanto la Parola suscita in noi, soprattutto nei momenti più difficili della vita, nelle svolte decisive e spesso dolorose che si affacciano sulla nostra storia personale, comunitaria, ecclesiale. Questo atteggiamento è essenziale per vincere la più grande tentazione del discepolo che è la “riduttività”. Nella sequela persiste sempre il pericolo per il discepolo di falsare, frantumare, “sciogliere Gesù Cristo” (1Gv 1,42 vulg.) ovvero ridurlo a schemi precostituiti soggettivi e riduttivi. Scrive D. Bonhoeffer a tal proposito: “Il discepolo si mette a disposizione e quindi ha il diritto di porre le sue condizioni. Ma è anche chiaro che a questo punto la sequela cessa di essere sequela” (da “Sequela”). In questa tentazione vi si cade quando il singolo o l’istituzione si fossilizzano in concretizzazioni ormai superate: quando si vive di memoria stantia preoccupata più di conservare che di ascoltare ciò che “lo Spirito dice alle Chiese”, cessa la sequela quando cessa d’essere profezia che guarda in avanti nella direzione del Regno.
    Allora nel discorso sulla sequela non si insisterà mai a sufficienza sul fatto che il discepolo e la comunità devono costantemente vivere in un sano” strabismo” ovvero dal saper tenere attenti gli orecchi e lo sguardo, come i due discepoli, su due realtà contemporaneamente: la Parola e la storia. Solo così non ci si accontenterà solo di sopravvivere di glorie passate, fossero pure quelle gloriose e sante delle proprie origini o dei fondatori. Quelle pagine devono essere “riscritte costantemente” (come ci ricordava Giovanni Paolo II nell’esortazione “Vita Consacrata”). Questo significa accogliere “Gesù Maestro e Signore nella pienezza del suo mistero e questa non è opera di un giorno nella consapevolezza che non si dà autentica sequela senza l’amore per chi si segue. 

    Oratio

     O Signore, tu ci comandi di seguirti non perché tu abbia bisogno del nostro servizio, ma soltanto per procurare a noi la salvezza. Infatti seguir te, nostro Salvatore, è partecipare alla salvezza, e seguire la tua luce è percepire la luce… Il nostro servizio non apporta nulla a te, perché tu non hai bisogno del servizio degli uomini: ma a coloro che ti servono e ti seguono, tu doni la vita, l’incorruttibilità e la gloria eterna… Se tu ricerchi il servizio degli uomini è per poter accordare, tu che sei buono e misericordioso, i tuoi benefici a coloro che perseverano nel tuo servizio. Perché, come tu, o Signore, non hai bisogno di nulla, così noi abbiamo bisogno della comunione con te; infatti la nostra gloria è di perseverare e rimanere saldi nel tuo servizio. Amen (Sant’Ireneo, vescovo di Lione del IV sec, da “Contro le eresie” IV).

    Posted by attilio @ 09:24

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