Pane
spezzato per tutti
Siamo forse
troppo abituati all’Eucarestia quotidiana nelle nostre comunità. Quando il
segno viene ripetuto spesso, si corre il rischio di perderne lo stupore, il
valore e soprattutto il rapporto con la vita. Si rinchiude in se stesso come
"una" delle tante cose in una sorta di religiosità intimistica che
nulla ha a che fare con lo spessore concreto dell'autentica vita spirituale
cristiana. Ora nulla sarebbe più deleterio per lo "spezzare
il pane" eucaristico, che è al cuore della vita e della fede della Chiesa,
di essere vissuto in una sorta di atmosfera asettica separata dalla concretezza
dell'esistenza che al contrario deve poi portarci a "spezzare il
pane" con i nostri fratelli. Occorre
perciò sempre riandare con la mente e il cuore alla sorgente da cui sgorga
limpido e vitale il "mistero della
fede" onde evitare tale deriva.
E'
la cena del Signore: corpo-pane dato per tutti
Nel narrare l’ultima cena, i tre evangelisti sinottici Matteo, Marco e Luca
– oltre a Paolo in 1Cor 11,23-32 – riferiscono l’istituzione dell’Eucaristia,
mentre Giovanni apparentemente non ne parla sostituendo il racconto con l'episodio
della lavanda dei piedi. Sorge ovviamente la domanda del perché di questa
scelta. Ci appare evidente la preoccupazione dell'evangelista di voler
sottolineare alle sue comunità che l’Eucaristia non può rinchiudersi
semplicemente in un rito, ma deve prolungarsi nella carità e nel servizio
concreti nei confronti dei fratelli (cfr Gv 13,12-17).
Significativo
è spostarci ora a Corinto dove da poco era sorta una comunità cristiana frutto
della predicazione di Paolo. L'apostolo si trova ad aver a che fare con una
comunità che non ha compreso le implicanze concrete che derivano dal rito
liturgico dell'eucarestia sottolineate da Giovanni. Egli giunge addirittura a
denunciare questa comunità come indegna di celebrare l'eucarestia che diventa
per essa condanna. Cosa avveniva per provocare questo forte biasimo di Paolo? Egli
era stato informato della divisione tra i cristiani più ricchi che non
aspettavano tutti i fratelli e cominciavano a mangiare e a bere fino a
ubriacarsi, cosicché i cristiani poveri che giungevano in ritardo, forse perché
trattenuti dal lavoro, non avevano più nulla da mangiare. L'eucarestia era
perciò celebrata da questa giovane comunità in un contesto di divisione e di
indifferenza verso i poveri (cfr 1Cor 11,17-22.27-34). L’Apostolo scrive:
"Quando vi radunate insieme il
vostro non è più un mangiare la cena del Signore (kyriakòn deîpnon)", è invece un "prendere ciascuno la sua propria cena (tò ídion deîpnon)".
Disgiunta
dall'attenzione al povero la "cena del Signore" era snaturata del suo
vero significato in quanto vi era chi "mangiava la sua cena" e non
quella del Signore. Paolo definisce questo comportamento letteralmente come un
"umiliare chi non ha niente".
San Giovanni
Crisostomo – un padre della Chiesa del IV secolo – in una omelia in cui
commenta questo passo della prima lettera ai Corinti, scrive: "La Chiesa non esiste perché noi, venendoci,
conserviamo le nostre divisioni, ma perché ogni disuguaglianza sparisca: ecco
il senso del nostro riunirci insieme". E poco dopo aggiunge: "Perché ricordare l’istituzione dei santi
misteri? Perché in questo momento si rendeva necessario tale richiamo
[dell’ultima cena]? Il Signore vostro, vuole dire [l’Apostolo], si è degnato di
accogliervi tutti al suo banchetto, benché esso sia santo e venerabile, e voi,
invece, osate giudicare i poveri indegni della vostra piccola e miserevole
tavola".
L'Eucaristia
è "scuola della condivisione": condividiamo il Corpo e Sangue di
Cristo affinché impariamo a condividere il pane con il fratello. Non c'è uno
spezzare il pane eucaristico senza amore e non c'è amore senza che attinga
energia nello spezzare il pane eucaristico.
Se l'eucarestia
si dovesse ridurre ad una semplice – sebbene reale – presenza di Cristo
sull’altare, Gesù non ci avrebbe comandato di ripetere il suo gesto. Se Gesù ha
trasformato il pane e il vino nel suo corpo e nel suo sangue, è perché anche
noi impariamo a donarci ai fratelli come si è donato Lui! "Da questo sapranno che siete miei discepoli:
dall'amore che avrete gli uni per gli altri" (Gv 13,35).
Non è cosa
da poco considerare come le prime comunità apostoliche identificassero la loro fedeltà
al Vangelo nella misura in cui vivevano la comunione e la
condivisione: "tutti i
credenti, poi, stavano riuniti insieme e avevano tutto in comune; le loro
proprietà e i loro beni li vendevano e li facevano parte a tutti; secondo il
bisogno di ciascuno” (At 2, 44-45).
Ed è proprio
per esprimere questa tensione irriducibile verso la condivisione fraterna che
il memoriale eucaristico voluto da Cristo assume la forma simbolica della
mensa: essa è il luogo privilegiato in cui si sperimenta la fraternità e la
condivisione. L'altare non è l' "ara sacrificale" degli antichi riti
pagani ma è lo spazio attorno a cui tutti ci sentiamo fratelli amati e chiamati
ad accogliere altri in esso. Il sacrificio di Cristo è il dono della sua vita
per noi, noi l'accogliamo perché desideriamo fare di noi stessi "un
sacrificio a Dio gradito". In quale modo? Donando ciò che siamo e ciò che
abbiamo.
Infatti Paolo,
sempre nella prima lettera ai Corinti, riporta le parole di Gesù pronunciate
nel cenacolo: “Questo è il mio corpo che
è per voi”. Queste parole si differenziano da quelle dei sinottici per
l’espressione "corpo-che-è-per-voi"
(tò sôma tò hypèr hymôn). Dicendo
queste parole Gesù spezza il pane e lo condivide: condivide l’unico pane come
segno di una vita condivisa, non tenuta per sé stessi ma donata. Il suo è corpo
dato, consegnato, vita spesa fino all’estremo, vita donata per gli altri. Esso nega
ogni logica individualistica mondana in cui l'uomo si rifiuta di darsi e dare,
di condividere.
Liturgie
schizofreniche?
Nella
liturgia, luogo in cui la grazia ci forma ad immagine di Cristo, attingiamo
alla fonte del nostro vivere "da cristiani" nel mondo. Dalla messa
dovremmo uscire con il cuore un po' più simile al cuore di Cristo che "da ricco che era si è fatto povero per voi""
(2Cor 8,9), che ha detto di sé "ho
avuto fame, ho avuto sete, ero nudo, forestiero, carcerato" (cf. Mt
25,31-46).
Sempre san
Giovanni Crisostomo ripetutamente denunciava alla sua comunità lo scandalo di
nutrirsi del corpo di Cristo alla tavola eucaristica e poi di non preoccuparsi
di lasciare morire i poveri di fame alla porta delle chiese. In una delle sue
omelie con parole di fuoco mette allo scoperto questa piaga spirituale: "Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non
tollerare che egli sia nudo; dopo averlo onorato qui in Chiesa con stoffe di
seta, non permettere che fuori egli muoia per il freddo e la nudità. Colui che
ha detto: «Questo è il mio corpo», confermando con la sua parola l’atto che
faceva, ha anche detto: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» ... Quale
vantaggio può avere Cristo se il suo altare è coperto d’oro, mentre egli stesso
muore di fame nel povero? Comincia a saziare lui che ha fame e in seguito, se ti resta ancora
del denaro, orna anche il suo altare. Gli offrirai un calice d’oro e non gli
dai un bicchiere d’acqua fresca: che beneficio ne avrà? Ti procuri per l’altare
veli intessuti d’oro e a lui non offri il vestito necessario: che guadagno ne
ricava? ... Dico questo non per vietarti di onorare Cristo con tali doni, ma
per esortarti a offrire aiuto ai poveri insieme a quei doni, o meglio a far
precedere ai doni simbolici l’aiuto concreto”.
Se un cristiano
che, ancor più se consacrato, vivesse questa schizofrenia spirituale ovvero una
vita liturgica che però divenisse scusante per non toccare la sua vita, le sue
cose, le sue sicurezze, i suoi soldi....nella logica di voler salvare la
propria vita dimenticando o disprezzando gli altri, soprattutto i poveri e i
peccatori, questo rappresenterebbe non solo una plateale controtestimonianza,
ma certamente in quel rito mangerebbe e berrebbe indegnamente il Corpo e il
Sangue del Signore. Così una comunità religiosa, dopo aver spezzato il pane
eicaristico, non può vivere nella logica di un proprio progetto in cui ricerca
sicurezza e comodità senza sottomettersi alla stessa logica eucaristica della comunione "del pane spezzato", ovvero
del corpo-per-voi, esatto contrario della logica del corpo-per-me.
In tal senso
abbiamo forse svigorito se non addirittura banalizzato un momento della
celebrazione che in antico legava strettamente la celebrazione del sacramento
alla cura del povero. E' l'offertorio. Nelle liturgie dei primi secoli, dopo
l'ascolto della Parola e la sua attualizzazione da parte del presbitero, da
parte dei fedeli si raccoglievano come frutto dell'ascolto non solo il pane e
il vino per il rito (oggi si ama portare talvolta insieme palloni, libretti, fiorellini,
ceri, e cianfrusaglie varie...), ma si aggiungevano offerte ben più cospicue per
i più poveri (soprattutto di cibo, ma anche di animali, e indumenti. Tra
parentesi ecco perché poi il celebrante doveva poi lavarsi le mani!). Non
sarebbe forse il caso di reinterpretare e rivalorizzare, certo in forme
diverse, e che non sia il solito giro anonimo del cestino, lo spessore di
questo importante momento liturgico, come fortunatamente facciamo qualche volta
in occasione di qualche grave calamità con offerte straordinarie?
Ernesto
Balducci in una riflessione dal titolo “L’eucaristia
progetto di un mondo nuovo”, apparsa nel 1971 su "Testimonianze" ha
scritto: “L’assemblea eucaristica è il
corpo che Gesù, offrendo se stesso, costruisce a se stesso. L’umanità liberata
da Cristo è un’umanità conviviale: in essa la fraternità non ha il carattere
della solidarietà dei disperati, ha il carattere della letizia regale, quella
che ci sarà concessa nell’ultimo evento.
Per piccola che sia, la comunità di fede, nel momento in cui si
distribuisce il pane e il vino, significa la riuscita del mondo, significa,
insomma, che i progetti umani non sono destinati a fallire, perché Dio ha
deciso altrimenti: nemmeno il più misero degli uomini andrà perduto”.
Una comunità
che spezza il pane dell'altare e poi della mensa annuncia la speranza di un
mondo nuovo in cui tutti si sentano riconosciuti e amati da fratelli. Questo è
anticipo di paradiso!
Questo
accade? O dobbiamo riconoscere che le nostre liturgie sono sempre esposte al
rischio di rinchiudersi tra le mura solenni del tempio e di dimenticare
"la carne di Cristo che sono i poveri", come più volte ci ricorda
papa Francesco? La celebrazione che, ci auguriamo sia svolta sempre con cura e
amore, si prolunga nella liturgia della vita in cui a nostra volta, nutriti dal
pane spezzato di Cristo, ci facciamo pane condiviso con coloro che stanno
"alle periferie dell'esistenza"?
Una
verifica sempre da farsi
"Un giorno un mandarino fece un viaggio
nell'aldilà. Prima arrivò all'inferno. C'erano molti uomini seduti davanti a
piatti pieni di riso, ma tutti morivano di fame perché avevano dei bastoncini
lunghi due metri, e non potevano servirsene per nutrirsi. Poi andò in cielo.
Anche là c'erano molti uomini seduti davanti a piatti pieni di riso, ma tutti
erano felici ed in buona salute; anche loro avevano dei bastoncini lunghi due
metri, ma ciascuno se ne serviva per nutrire il fratello che era di fronte a
lui". Con la modalità che è propria del linguaggio simbolico e
narrativo, questa piccola parabola annuncia che la carità non è appannaggio di
chi vuol dare alla propria vita un supplemento di senso né di chi vuol
affermare la propria e superiore diversità di fede; l'attenzione e la cura
dell'altro dovrebbe essere la struttura portante delle relazioni tra gli esseri
umani: è ciò che rende possibile un anticipo di "paradiso", mentre la
sua assenza trasforma già ora la vita in un "inferno" fatto di
solitudine e amarezza.
Non è
possibile assistere senza restarne smarriti al fenomeno che avviene sotto i
nostri occhi, ossia il numero dei credenti che ogni domenica si accostano alla
comunione al corpo del Signore e, al tempo stesso, costatare poi l'assenza di
una disponibilità di condivisione e comunione con gli altri. Una sorta di
allergia o insofferenza verso l’aiuto e il sostegno a chi è nel bisogno, l’accoglienza
di chi bussa alla nostra porta.
Nella crisi
economica che stiamo tutti attraversando, noi consacrati dovremmo compiere ogni
giorno il segno della fractio panis con
una sempre rinnovata consapevolezza: siamo disposti a condividere il nostro pane
con chi manca del necessario? O ci limitiamo a qualche sospiro compassionevole
e poco convinto seduti comodamente in poltrona davanti alla TV? Nella vita di tutti i santi fondatori non
mancano mai episodi in cui il condividere con i poveri ciò che si ha è
avvertito come un'esigenza imprescindibile per rispondere in verità alla
chiamata alla sequela di Gesù maestro. Ciascuno di noi potrebbe attingere a
piene mani a questi esempi che releghiamo troppo facilmente in una sorta di
racconti ideali ma irripetibili.
Siamo chiamati a servire il prossimo
in tutti i modi e nella misura più generosa! Fare dono del tempo, delle nostre
competenze, delle nostre risorse, delle nostre case. Una carità attenta moltiplica
i legami con gli altri, apre la porta a chi bussa disperato, condivide la gioia
e la sofferenza facendosi compagno di viaggio, non esclude nessuno, promuove ogni
persona, ogni vita, facendo così emergere prepotentemente la consapevolezza
della dignità di ogni uomo, così disattesa nella cultura imperante dello
"scarto" duramente denunciata da papa Francesco.
Fissare
i nostri occhi in quelli di Gesù Eucarestia che continuamente si spezza per
amore per me e per ciascuno, significa concretamente guardare me stesso, gli
altri, e soprattutto gli ultimi, gli esclusi, gli ammalati, i peccatori non con
la sufficienza di chi sta al riparo nella propria sicurezza, ma con la povertà
di chi accetta di mettersi in gioco facendosi compagno di strada con altri
fratelli e sorelle perché insieme si possa tornare a sperare in un'umanità
diversa. In una
società dove domina la legge del più forte, la legge dell'accaparramento dei
beni, la nostra eucaristia non deve forse trasformarsi nella celebrazione dell'essere
tutti figli di uno stesso Padre e dunque fratelli tra noi, non deve forse
annunciare e testimoniare che l'uomo non è fatto per questo ma per la comunione
e la condivisione?
In un episodio
tratto dalla vita di papa san Gregorio Magno possiamo racchiudere l'intero nostro
discorso. Gregorio tutti i giorni inviava per la città di Roma carri di
vettovaglie cotte per i deboli e per gli infermi; ogni invitava alla sua tavola
dodici pellegrini, a cui prima del pranzo lavava egli stesso le mani. Un giorno
fu trovato morto sotto un portico vicino un poveretto e si disse che fosse
morto di fame. Fu tale il dolore del papa, ch’egli si astenne per alcuni giorni
dalla celebrazione dei divini misteri, come se lo avesse ucciso con le proprie
mani. Il santo non aveva dimenticato l'esigenza originaria dell'eucarestia:
quella di impegnarci a condividere il pane. Noi faremmo altrettanto?
Attilio Franco Fabris
Monastero di Sant'Andrea
Abbazia di Borzone
16041 Borzonasca - Ge
www.abbaziaborzone.it