Custodi dell'Unico necessario
la vita monastica solitaria: un carisma attuale?

di ENZO ROMEO

 

È la più radicale, ma anche la più dolce tra le vocazioni religiose. La scelta eremitica sta tornando in auge. Perché racconta l'inesprimibile. E trasforma la solitudine in un giardino fiorito dello Spirito.

Ma parlare dell'eremitismo è parlare dell'inesprimibile. «Dimmi una parola, tu che sei saggio», venne chiesto a un monaco eremita. «Se parlo», rispose questi, «rompo il silenzio, che è il mio linguaggio; e se mi chiedi di rompere il silenzio vuol dire che non puoi capire il mio messaggio ». Un altro monaco disse a uno che voleva venire da lui: «Se vieni, ti aprirò; ma se apro a te, aprirò a tutti e allora non rimarrò più in questo luogo». Il visitatore pensò: «Se andandoci lo caccio, non ci vado più». Osservare tacendo, accostarsi senza niente pretendere. Non c'è altro modo per provare a capire l'esperienza del solitario di Dio. Che nell'isolamento è con tutti e di tutti, grazie al riflesso divino che assume la sua vita. Così è stato per i primi anacoreti, per gli stiliti, per i romiti asceti. Mentre ci si allontanava dagli altri, gli altri cercavano un contatto.

Il deserto della Tebaide divenne un giardino dello spirito. Dall'epoca bizantina al Medioevo, dagli altopiani dell'Anatolia all'ultima conchiglia della spiaggia galiziana non c'è stato tempo e spazio del Vecchio mondo che non abbia conosciuto le orme di un eremita. E ancora oggi tra le balze dei monti o magari nel mezzo delle città troviamo ex impiegati, ex professionisti, ex intellettuali, ex contadini che scelgono l'eremo quale condizione di vita. Perché tutti possono sentirsi attratti da questa vocazione religiosa, la più radicale ma anche la più dolce, la più dura e insieme la più singolarmente appassionante. È vero, la solitudine è una delle piaghe della nostra società. Ma lo è perché subìta, mentre dovrebbe rappresentare uno spazio vitale che, distanziandoci per un periodo dagli altri, ci restituisca la misura della prossimità.

Ecco perché ci si sente soli soprattutto nelle grandi metropoli, dove l'anonimato è la condizione ordinaria delle persone. Non deve sorprendere, dunque, se nell'era della comunicazione c'è nostalgia del silenzio, che risulta spesso più eloquente di qualunque discorso. Non è un ossimoro né un paradosso: è semplice constatazione. Solo l'egoista non ha bisogno del silenzio. Più il silenzio si espande, più la comunicazione col mondo diventa ampia e integrale. La dimensione della contemplazione e dell'ascesi è stata apparentemente rimossa dal vivere contemporaneo. In realtà è desiderata e quasi agognata. L'uomo affannato del terzo millennio avverte sempre più chiaramente il bisogno di ritrovarsi, rientrare in sé, superare la dispersione. Il nostro corretto agire – e dunque la nostra stessa vita – non dipende dalla quantità delle azioni, bensì dalla loro qualità.

Ognuno si accosta in maniera diversa a colui che i certosini chiamano l'«Unico necessario». Ho conosciuto un monaco solitario che era stato brillante allievo alla Sorbona negli anni caldi della protesta studentesca. «Il Sessantotto», disse, «mi fece capire che non tutto poteva rientrare in una prospettiva materiale, ma che c'era qualcos'altro per cui valeva la pena lottare». L'eremitismo è trasversale, sia a livello sociale che confessionale. Lao-Tse e Buddha, i sadhu dell'induismo e i sufi del misticismo islamico: in tanti hanno cercato e cercano nella solitudine una forma di elevazione interiore. Senza divenire un corpo estraneo dal resto della comunità degli uomini.

L'intimità con l'assoluto dilata il cuore. Si rimane colpiti nel vedere eremiti dell'Occidente cattolico pregare davanti a un'icona ortodossa raccolti nella tipica posizione orientale del loto. Un'immagine che condensa stili e tradizioni diverse. «C'è un ecumenismo di base che è molto più avanti di quello dei vertici, spesso bloccati dai lacci e lacciuoli della diplomazia ecclesiale», mi disse una volta un monaco. «Si potrebbe affermare », aggiunse, «che tra noi solitari c'è un'intesa del cuore che nasce spontanea dalla considerazione di essere fratelli, prima che membri di una confessione diversa e legati a riti e consuetudini differenti».

L'eremita, nella sua solitudine, percepisce la precarietà dell'esistenza, sa di dover contare su Dio solo. Esce dalle logiche della redditività e dell'efficientismo che spesso impediscono di vedere i veri bisogni degli uomini. La ricerca di Dio nella contemplazione fa riconoscere il volto di Cristo nel più povero. Il vescovo brasiliano Helder Camara alimentava la sua passione per gli ultimi nell'intimità con Dio. Avvertiva che siamo istintivamente soggetti alla dispersione e alla frantumazione e che solo una gerarchia interiore perseguita con fedeltà può salvarci da questo pericolo. Per lui era necessario coltivare ogni giorno un tempo del cuore, dedicare uno spazio al mondo dello spirito.

La luce dell'essere e dell'agire – affermava Camara – nasce dal nostro profondo, dove si cela il mistero dell'identità personale e il bisogno della comunione con l'altro. Diceva: «Sai perché non ti fermi mai? Tu pensi, forse, che sia senso di responsabilità la mancanza di tempo da perdere, l'indifferenza e il disprezzo per tutto ciò che impedisce di approfittare al massimo del breve tempo della vita... In realtà tu stai semplicemente ingannandoti e tentando di fuggire da un incontro con te stesso». L'esatto contrario del carpe diem su cui si basa il comune pensare della società odierna.

Certo, talvolta l'inazione può risultare penosa e difficile per chi è uso a misurare tutto con il metro del fare. C'è l'ansia di dover rispondere a tante domande, a tante richieste, a tanti bisogni. Eppure, raccogliersi senza fare nulla all'apparenza, solo per tornare «in sé», per guardarsi dentro e comprendere il senso e le motivazioni delle proprie azioni, può essere più fecondo di mille variegate e inconcludenti attività. Ne era convinto Thomas Merton. Impossibile – sosteneva – interpretare correttamente il nostro tempo, trovare le soluzioni, senza prima sedersi a pensare, senza il coraggio di fare una «lettura sapienziale» di ciò che accade. Non si possono dare risposte vere se non si è in grado nel contempo di porsi in sintonia con la incommensurabile profondità delle persone, anche le più semplici. Vale il detto di un padre del deserto del V secolo, Isidoro di Pelusio: «una vita senza parole può giovare più che le parole senza vita». L'eremita, in questo senso, avrebbe da insegnare molto all'uomo moderno, per il quale niente si radica, niente permane, tutto è a breve termine e ha il respiro corto. Le relazioni divengono frustranti, dove si era figli ci si sente schiavi, l'amore di un tempo appare una trappola.

Quanti giovani non riescono ad assumersi le proprie responsabilità, non hanno passioni né forti interessi ? La loro domanda frequente è: «Chi me lo fa fare? Ne vale la pena?». Sognano sempre di fare qualcos'altro rispetto al presente, non sanno perseverare e vanno in cerca di distrazioni che occultino la realtà. Indubbiamente, anche nell'eremo bisogna essere attenti a non sciupare il valore delle cose. La solitudine e il silenzio, in sé, non sono né buoni né cattivi. Dipende dall'uso che se ne fa. Possono essere praticati per orgoglio, per disprezzo dell'altro o per collera nei suoi confronti. Che si pecchi con la lingua o che lo si faccia con il silenzio non cambia le cose. La frase di un padre del deserto è illuminante: «C'è un uomo che sembra tacere ma il suo cuore giudica gli altri; costui parla sempre. E c'è un altro che parla da mattina a sera ma conserva il silenzio, perché non dice niente che non sia edificante».

Qualunque sia la scelta che si compie, l'importante è che sia fatta per amore. Una volta ho chiesto a un certosino se la sua vita e quella degli altri monaci non risultino sprecate, ridotte come sono negli spazi della clausura. «Certo che lo sono», mi rispose lui tranquillo. «Siamo come quella donna che versò tutto il profumo prezioso sui piedi di Gesù. Anche noi abbiamo deciso di sprecare ciò che abbiamo di più prezioso, la nostra vita, per Gesù che amiamo; tutti quelli che sono stati innamorati sanno che le più grandi follie si fanno per amore». E chi lascia tutto per darsi a Dio – aggiunse – non può incontrare l'egoismo ma l'amore, perché Dio è amore e Dio riempie chi lo cerca. Il monaco solitario abbraccia tutti gli uomini nell'ardore di un immenso amore e di un'infinita compassione e la sua solitudine non può che sbocciare in una pienezza di comunione.

Si rimane stabilmente in un eremo solo se si è innamorati di Dio, a cui si giura per sempre fedeltà. Come un uomo che lascia tutte le altre donne per andare incontro alla sua sposa, così l'eremita va incontro all'Altissimo come un innamorato. Da qui nasce anche il grande desiderio di solitudine, che è voglia di restare in intimità col Signore, in un gioco fatto di richiami e risposte tra l'Amato e l'amante. Il Dio nascosto diviene per l'eremita il Dio rivelato, il Dio-bontà, colui che dona sé stesso all'altro. Ci si scopre amati nonostante le proprie colpe più che per i propri meriti. In questo modo Dio coinvolge l'uomo, che risponde restituendo il dono ricevuto.

In fondo sta qui per la teologia cristiana il mistero della Trinità: il Padre si dona al Figlio e questi si dona al Padre e la loro unione è lo Spirito Santo. L'unità è nella molteplicità e viceversa. Forse nessuno più di un poeta sa cogliere questa verità. Emily Dickinson visse tutta la vita in casa, nel Massachusetts, e la sua camera divenne come la cella per una claustrale. Nel 1886, al momento della morte, la sorella scoprì centinaia di poesie, scritte su foglietti ripiegati e cuciti con ago e filo in un raccoglitore. Quei versi, frutto della solitudine, hanno fatto della Dickinson una delle poetesse più rappresentative di tutti i tempi. La sua eccezionale sensibilità d'animo le fece intuire che solo il monos rende possibile l'abbraccio totale dell'assoluto: One and One - are One / Two - be finished using / Well enough for schools / But for inner Choosing / Life - just - Or Death / Or the Everlasting / More - would be too vast / For the Soul's Comprising. Uno più uno - fa uno / Due - si finisca di usarlo / Va bene per la scuola / Ma per la scelta interiore / Vita - soltanto - o morte / O l'eternità / Di più - sarebbe troppo vasto / Per la capacità dell'anima.