Ildegarda
di Bingen
Premessa: Un cammino di stupore in stupore
"Ho
fatto una scoperta o, dovrei dire, ho avuto una visione. L'ho avuta tra due
tazze di caffè nero in un ristorante francese di Soho; ma non saprei spiegarla,
neppure se tentassi di farlo. Comunque era che tutte le cose buone formano un
tutt'uno... Questo è ciò che sento... adesso, ad ogni ora del giorno. Tutte le
cose buone sono una cosa sola. È questo ciò che gli Ebrei dell'antichità, soli
tra gli altri popoli, hanno percepito. I Greci, i Vichinghi e i Romani non
furono attraversati come qualche rude israelita, una notte, nella solitudine
del deserto, dall'improvvisa, abbagliante idea che tutto il mondo era la
manifestazione di un solo Dio: un'idea degna di un romanzo poliziesco." (G.
K. Chesterton, L'ortodossia)
C'è una tensione che attraversa quasi in sordina il mondo contemporaneo: la si
può definire bisogno di una visione olistica, unitaria, dell'uomo, della
natura, di Dio. Essa affiora, soprattutto, o deformata nelle correnti esoteriche,
oppure concettualmente articolata, negli ambiti di scienza come la biologia, la
chimica o la fisica... Qualche volta un poeta, come appunto Chesterton, giunge
a percepirne concretamente la realtà, oppure un pittore, come Van Gogh, ce ne
dà suggestiva rappresentazione attraverso il dinamismo estetico con cui investe
al contempo cielo, terra, uomini, cose. La tradizione cristiana, nella sua
storia, non solo ha conosciuto questa tensione ma ha saputo elaborarne,
attraverso l'attività e la riflessione di alcune sue grandi personalità, uno
sviluppo critico coerente. Ildegarda di Bingen, vissuta nel secolo d'oro del
Medio Evo, il XII, è luminosa testimone della visione olistica della tradizione
cristiana, visione che non è stata per lei soltanto fulminea intuizione, ma
anche e soprattutto esercizio potente di uno sguardo e di un pensiero aperti
alla totalità del reale. Conoscere la storia, le visioni, la dottrina, il
sapere di Ildegarda è introdursi da una concezione dell'esistenza integralmente
positiva, è scoprire che, nella costellazione delle grandi personalità
cristiane, brilla anche la figura di una donna per la quale salute del corpo e
salvezza dell'anima sono strettamente correlate (del resto l'una e l'altra sono
indicate, in latino, dall'unica parola salus). L'intuizione di Chesterton e la
percezione sensibile di Van Gogh appartengono alla verità esistenziale della
condizione umana contemporanea. Ma, per chi la incontra oggi, Ildegarda
spalanca una panoramica finestra su un meraviglioso paesaggio.
Ildegarda e il suo tempo - La vita
1098,
estate. Nell'anno che precede la conquista di Gerusalemme da parte dei primi
crociati, nacque, nei pressi di Alzey (nella regione dell'Assia Renana, a poco
più di 30 km da Magonza), Ildegarda, decima e ultima figlia del nobile
Ildelberto di Bermersheim e di sua moglie Matilda (il nome Ildegarda significa
protettrice delle battaglie). Ben presto si manifestò la pronta ed acuta
intelligenza della bambina, ma altrettanto instabile era la sua salute. La sua
natura di visionaria comparve molto presto, se come lei stessa ci racconta:
"Nel mio quinto anno di vita vidi una luce così grande che la mia anima ne
fu scossa, però, per la mia tenera età, non potei parlarne..." È probabile
che l'osservazione delle straordinarie doti della bambina abbia pesato nella
decisione dei suoi genitori di affidarla, all'età di otto anni, alla maestra
Jutta, una giovane di nobile lignaggio, figlia del conte di Spanheim, che si
era appena ritirata in clausura presso il monastero benedettino di
Disibodenberg, situato alla confluenza dei fiumi Glan e Nahe. Jutta
"l'educò accuratamente all'umiltà e all'innocenza, la iniziò ai canti di
David e le insegnò i salmi", scrive Goffredo, il primo biografo di
Ildegarda. Oltre a Jutta, Ildegarda ebbe un altro maestro, il monaco Volmar,
assistente spirituale della clausura, ed in seguito suo primo segretario;
possiamo immaginare che fu lui a contribuire alla sua formazione, insegnandole
le arti liberali che erano parte del patrimonio culturale dei monaci di quel
tempo. Giunta all'adolescenza Ildegarda decise liberamente di porre la sua vita
al servizio di Dio; pronunciò i voti dell'ordine benedettino e (tra il 1112 e
il 1115) ricevette il velo dalle mani del vescovo Ottone di Bamberg. Passarono
trent'anni senza che si verificassero grandi eventi, ma intanto: "La sua
reverenda madre (Jutta) scopriva piena di meraviglia come la sua allieva fosse
divenuta a sua volta maestra..." Così, quando nel 1136 Jutta morì, le
monache che in quegli anni si erano radunate attorno a Jutta, la elessero
badessa. Per cinque anni ancora la vita a Disibodenberg proseguì il suo corso
tranquillo, ma quando Ildegarda arrivò ai quarantadue anni, mentre giaceva
afflitta da una penosa malattia, una delle tante che l'avevano accompagnata nel
corso della vita, la voce di Dio insistentemente le intimò: "Manifesta le
meraviglie che apprendi... Oh tu fragile creatura... parla e scrivi ciò che
vedi e senti..." Ildegarda, incerta, resisteva, e ciò aumentava le sue
sofferenze fisiche; infine trovò la forza di manifestare quanto le accadeva a
Volmar, che le consigliò di rendere noto quanto Dio le ispirava. Da quel
momento le forze le ritornarono ed Ildegarda iniziò a comunicare le visioni che
l'avevano accompagnata fin dalla più tenera età: iniziava così a scrivere il
suo primo grande lavoro Scivias (Conosci le vie). Volmar e l'abate Kuno di
Disibodenberg si convinsero dell'ispirazione divina di quanto Ildegarda andava
rivelando, ed informarono di quanto udivano l'arcivescovo Enrico ed il capitolo
della cattedrale di Magonza. Intanto la fama di Ildegarda si spandeva nella
regione, giungendo anche alle orecchie di San Bernardo e del papa. Alla fine
dell'anno 1147, il papa Eugenio III aveva infatti convocato un sinodo generale
della chiesa a Treviri (che dista una settantina di chilometri da
Disibodenberg), e da lì inviò una sua delegazione ad incontrare ed interrogare
Ildegarda. Gli inviati del papa tornarono con un'ottima impressione; gli
scritti di Ildegarda furono letti personalmente dal papa in un'assemblea
plenaria del sinodo, nel quale lo stesso San Bernardo intervenne, chiedendo al
papa di non tollerare che una tale luce luminosa venisse coperta dal silenzio.
Così il papa diede a Ildegarda il permesso di rendere noto ciò che lo Spirito
le ispirava e la incoraggiò a scrivere. L'evento del sinodo contribuì a
spargere la fama di Ildegarda per tutta Europa; ne sono testimonianza le
numerose lettere indirizzate a questa donna saggia e piena di Dio, che tanti le
inviavano da ogni dove. Un numero sempre maggiore di nobili ragazze bussavano
alla sua porta, ma la comunità femminile di Disibodenberg rimaneva una misera
appendice del grandioso convento. Così lentamente Ildegarda maturò l'idea di
fondare lei stessa un nuovo convento. L'ispirazione divina le suggerì la
collina di Rupertsberg, luogo ameno, ma selvaggio e disabitato, situato a 25-30
km da Disibodenberg, vicino alla città di Bingen, alla confluenza della Nahe
nel Reno. Però furono tali le resistenze e le difficoltà che si frapposero, in
primis le resistenze dei monaci di Disibodenberg, che Ildegarda si scoraggiò e
pensò di rinunciare all'idea. Per il grande travaglio cadde ammalata, e solo
quando lei e le sue monache poterono finalmente partire, improvvisamente guarì.
Gli aiuti per la costruzione del nuovo convento arrivarono generosi, ma solo
verso il 1150 gli edifici cominciarono ad accogliere la ventina di monache
della comunità.
La vita a Rupertsberg dovette essere molto dura, agli inizi, e l'indipendenza
costò non poco alle monache, tanto che una parte di loro se ne andarono; fra di
esse anche la discepola preferita di Ildegarda, Riccarda, che allettata
dall'offerta di un suo potente fratello, arcivescovo di Brema, divenne badessa
di Birsin (morendo però solo un anno dopo). La situazione del convento
gradualmente migliorò, grazie a nuove donazioni; nel 1152 fu consacrata la
chiesa del convento e probabilmente per questa occasione Ildegarda scrisse la
sua opera musicale Ordo virtutum (La schiera delle virtù), grande esempio delle
sue doti musicali. I rapporti con Disibodenberg rimasero però tesi, perché i
monaci non volevano cedere beni e terreni che molte delle monache avevano
portato in dote a quel convento. La tensione arrivò al massimo nel 1155, quando
l'abate Kuno pretese che anche Volmar, che si era trasferito a Rupertsberg con
le monache, tornasse indietro. Allora Ildegarda stessa raggiunse a cavallo
Disibodenberg, presentandosi senza preavviso davanti a Kuno; l'abate fu
costretto a convocare il capitolo, a riconoscere i suoi torti ed a concedere
alle monache quello a cui avevano diritto, compreso la guida spirituale di
Volmar. Alla morte di Kuno, avvenuta l'anno dopo, Ildegarda concluse un accordo
con il suo successore, per uno scambio di terreni fra i due conventi che garantì
una buona stabilità a Rupertsberg. Il convento si consolidò ulteriormente
quando Ildegarda ottenne la protezione dell'arcivescovo di Magonza e nel 1163
dello stesso imperatore, Federico Barbarossa. Con l'imperatore Ildegarda aveva
avuto buoni rapporti fin dal 1154, quando egli, colpito dalla sua fama, l'aveva
invitata nel suo castello di Ingelheim. Ciò non le impedì di prendere
risolutamente posizione contro di lui, a favore del papa legittimo Alessandro
III, quando l'imperatore entrò in contrasto col papato, e fece eleggere due
successivi antipapi. Gli indirizzò diverse lettere rivolgendogli, in nome di
Dio, parole molto forti: "…Colui che è dice: la ribellione la distruggo e
la resistenza di coloro che mi si oppongono l'anniento... Guai, guai alle male
azioni dei sacrileghi che mi disprezzano!". L'imperatore non si vendicò,
ma non rispose ed il legame con Ildegarda si spezzò. Sotto la saggia guida di
Ildegarda, la comunità di Rupertsberg viveva nella gioia e nella concordia,
suscitando ammirazione ovunque. Così scrive il monaco fiammingo Viberto (che si
era recato nel 1177 a visitare Rupertsberg, e che vi rimase come ultimo
segretario di Ildegarda): "La madre circonda le figlie con tale amore, e
le figlie si sottomettono alla madre con tale reverenza, che si stenta a
distinguere se siano le figlie o la madre a riportare la vittoria. Praticano
con zelo letture e canti e le si può vedere intente a scrivere libri, a tessere
paramenti sacri o dedite ad altri lavori manuali". In questo periodo
Ildegarda scrisse anche la seconda sua opera più importante, il Liber vitae
meritorum (Libro dei meriti della vita). Il convento di Rupersberg attirava
sempre più giovani, così che dopo dieci anni dalla fondazione cominciò a
diventare insufficiente. Ildegarda cercò allora un altro luogo, e lo trovò non
troppo distante, sulla riva opposta del Reno, ad Eibingen, dove esisteva un
convento agostiniano semidistrutto. Ildegarda si accordò con la proprietaria di
quei luoghi, gli edifici furono ricostruiti e già nel 1165 le prime monache
cominciarono a risiedervi. Ildegarda, due volte la settimana attraversava il
Reno per assistere le sue monache del nuovo convento; questi aumentati impegni
non le impedirono comunque di iniziare l'altra sua opera principale, il Liber
divinorum operum (Il libro delle opere divine). Ormai anziana, ma piena di
energie, Ildegarda non mancò di portare la sua parola, fatto straordinario per
una donna, lontano dal suo convento, compiendo quattro grandi viaggi di
predicazione. Il primo iniziò alla fine degli anni '50 e la condusse lungo il
fiume Meno. Il secondo si svolse nel 1160; dapprima Ildegarda predicò a
Treviri, poi risalì il corso della Mosella fin dopo Lothringen, l'ultima tappa
fu Metz. Tra il 1161 e il 1163 discese il Reno e visitò le città di Boppard,
Andernach, Sieburg, Colonia e Werden. Il quarto viaggio fu intrapreso verso il
1170 ed ebbe per meta la Svevia; là predicò a Maulbronn, Hirsau e Zwiefalten.
La predica che tenne il giorno di Pentecoste a Treviri è giunta fino a noi:
"Io povera creatura, a cui mancano salute, vigore, forza e istruzione, ho
udito nella luce misteriosa del vero volto le seguenti parole per il clero di
Treviri: i doctores e magistri non vogliono più dar fiato alla tromba della
giustizia, perciò e scomparsa in loro l'aurora delle opere buone: se non
espiate i vostri peccati, dai nemici verrà alla città un castigo di
fuoco". L'eccezionale autorità spirituale che Ildegarda aveva guadagnato
le permetteva tale decisione e durezza. Così non esitò a eseguire l'incarico divino
di cui si sentiva investita, anche se in questo periodo le malattie la
tormentavano in modo particolare (con sottile autoironia scriveva: "Perché
non insuperbisca Dio mi ha costretta a letto"). Anche a Colonia fu molto
dura con il clero locale: "Per la vostra disgustosa ricchezza ed avidità,
nonché per altre vanità, non istruite i vostri sottoposti", ma altrettanto
decisa contro l'eresia dei catari, i puri, che si era diffusa anche in quella
città. Ildegarda era ormai vecchia, ma non le furono risparmiate ulteriori
prove. Nel 1173 morì il suo fedele consigliere ed amico Volmar, ed ella dovette
combattere a lungo, rivolgendosi anche al papa, perché l'abate di Disibodenberg
le concedesse un nuovo assistente, Goffredo, che morì però presto, nel 1176.
Nel 1178 la sua pietà per un giovane cavaliere morto a Bingen, al quale aveva
concesso la sepoltura nel cimitero di Rupertsberg, le costò una lunga disputa
col clero di Magonza. Secondo i canonici della cattedrale quel cavaliere si era
macchiato di un grave crimine, era stato scomunicato, perciò non poteva avere
una sepoltura religiosa e Ildegarda doveva allontanare subito il nobile dalla
terra consacrata, altrimenti il convento sarebbe stato colpito dall'interdetto.
Ildegarda sapeva che il cavaliere si era pentito e confessato prima della
morte. Non volle cedere all'intimazione e cancellò ogni traccia della
sepoltura. Si preparò alla difesa e si recò personalmente a Magonza a sostenere
le sue ragioni. Ma non riuscì a convincere i prelati, che confermarono
l'interdetto. Allora l'indomita Ildegarda trovò il modo di mettersi in
comunicazione direttamente con l'arcivescovo di Magonza, Cristiano, che in quel
periodo era Roma. Da lontano egli ordinò un'indagine, che sembrò chiarire la
vera dinamica delle vicende, così che l'interdetto fu revocato. Ma la questione
fu riaperta una seconda volta dagli ostinati canonici di Magonza, e solo una
seconda perorazione diretta di Ildegarda all'arcivescovo, sempre lontano,
riuscì a chiudere l'incidente. Ormai Ildegarda era molto vecchia e gli scontri
con il capitolo del duomo di Magonza le avevano minato le forze. Le monache la
sentivano sempre più spesso sospirare. "Vorrei essere liberata e stare
vicino a Cristo", ed una notte la luce risplendette di nuovo in lei e le
annunciò il giorno in cui sarebbe stata liberata dal peso del suo corpo.
Tranquillamente Ildegarda si preparò alla morte, che sopravvenne nel giorno che
le era stato predetto, il 17 settembre 1179, dopo che tutte le monache da lei
radunate ebbero intonato, per un suo ultimo desiderio, canti nuziali.
Ildegarda e il suo rapporto con la vita monastica: la regola
La regola è
il sicuro alveo nel quale scorre la vita dei monaci, ed anche se ogni grande
famiglia monastica la "reinventa" e la sottolinea secondo il suo
proprio carisma, da Agostino a Francesco d'Assisi essa non manca mai di
costituire il fondamento su cui si costruisce la possibilità di una vita in
comune. Ildegarda è benedettina, vive la regola, parla della regola e nei suoi
scritti si rifà alla regola con allusioni, con citazioni che le vengono
spontanee, nominando S. Benedetto assai più spesso di qualsiasi altro santo.
Scrive anche una sorta di breve trattato sulla Regola di S. Benedetto,
intitolato Explanatio regulae Benedicti, per rispondere a una richiesta fatta con
grande deferenza e stima: "Ad Ildegarda, tempio dello Spirito Santo,
reverenda sposa di Cristo, diletta da Dio, e stimatissima Maestra delle sorelle
di santo Ruperto di Bingen..." da un cenobio di canonici agostiniani, i
quali espressamente le chiedono un commento della regola di S. Benedetto:
"... Infatti anche se voleste interpretare per noi tutta la santa
Scrittura, nulla potreste offrirci che sia altrettanto utile a noi e da noi
altrettanto ambito quanto la vostra esposizione della regola...". Introducendo
la sua risposta Ildegarda dice di Benedetto che egli fu una ricca fonte dalla
quale sgorgano le acque della saggezza divina. Egli pose il perno della sua
dottrina non troppo in alto, né troppo in profondo, ma nel "centro della
ruota". La ruota è immagine di Dio, del Dio incarnato: dunque Benedetto ha
posto a misura, a regola della sua norma di vita, la vita di Cristo. Imitare la
vita e la passione di Cristo non vuol dire però ricercare penitenze
straordinarie: per Ildegarda la via che Benedetto ha tracciato è discreta e
piana, mentre prima di lui la vita monastica era durissima, fatta solo di
penitenza e di deserto (ella non ha mai disprezzo del corpo, che è al servizio
dell'anima, ma ha i suoi diritti ed un alto valore). La virtù dell'obbedienza è
lo specifico della regola: l'obbedienza impone di non seguire la propria
volontà, ma di ritornare a Dio dal quale ci siamo allontanati per la pigrizia
della disobbedienza. Nella regola la voce di Dio a cui obbedire non è una voce
astratta, ma è la voce del superiore, dell'abate.
La cultura
La conoscenza è per la monaca benedettina Ildegarda un cammino di illuminazione
che la impegna nel compito di trasmettere quanto ascolta e vede, non solo agli
uomini del suo tempo, ma anche alle generazioni future. Per questo la sua prima
opera scritta ha titolo Scivias: Conosci le vie, cioè presta attenzione,
guarda, scruta le vie divine, tutti i percorsi, rettilinei e contorti, tutte le
circostanze, nelle quali Dio ti viene incontro. Tutte le vie portano ad
un'unica meta, pertanto in ogni circostanza si può desiderare Dio e conoscerlo.
L'intera vita monastica insegna a coltivare il desiderio di Dio coltivando la
devozione al cielo. "Tutta la tradizione benedettina, in particolare, - ha
scritto J. Leclerq - si è modellata "sull'esistenza di San Benedetto:
scienter nescia et sapienter indocta, essa raccoglierà l'insegnamento della
dotta ignoranza, ne vivrà e la trasmetterà, la richiamerà e la terrà
incessantemente presente all'attività culturale della Chiesa come un paradosso
necessario..." Tale paradosso ha una straordinaria potenza e forza
persuasiva in Ildegarda, nell'espressione della sua conoscenza per
illuminazione o per visione. La sua vita monacale, noviziato che la esercita
alla vita eterna, diventa luogo e tempo della sua missione, esercizio che apre
tutti alla visione della stessa eternità e al cammino necessario per
raggiungerla. La sua dotta ignoranza, la sua sapienza, tutta merito dell'opera
di Dio nel debole vaso d'argilla della sua umanità, la abilita ad annunciare
con forza all'uomo di tutti i tempi la sua possibilità e capacità di conoscere
il significato proprio e del mondo. Ella può pertanto chiamare in causa
radicalmente la libertà umana, posta ad ogni passo ad un bivio, nella scelta
tra Cristo e l'anticristo. Può avvertire che, lontano da Dio, l'uomo non
conosce il bene, poiché, "andando tastoni, può solo ammiccare con occhi
ciechi, ma, nell'ombreggiato vigore conoscitivo della carne terrena, non vive
affatto in modo autentico." La sua sapienza umana e divina è stata di
grandissima utilità ai monaci del suo tempo, a persone di ogni tipo, ai poveri
e ai potenti. A tutti Ildegarda, riproponendo le verità della fede e la sua
concreta storicità nella Chiesa, ha prestato soccorso affinando "le
orecchie della percezione interiore" perché potessero aspirare "con
carità ardente" a tutto ciò che è specchio di Dio e a Dio stesso.
Ildegarda non si fidava ciecamente di se stessa. Cercò tutte le conferme
necessarie, poiché sapeva che la verità del contenuto dei suoi scritti era
fatto di primaria importanza. Quando già aveva presso di sé, come magister e
segretario, Volmar, quando già l'Arcivescovo e il capitolo del Duomo di Magonza
l'avevano confermata a scrivere, cercò il giudizio e il conforto di Bernardo di
Chiaravalle, il grande monaco cistercense, nel 1146: "Certissime et
mitissime Pater, audi me, in tua bonitate, indignam famulam tuam... Bone Pater
et mitissime, pono me in animam tuam, ora pro me, quia magnas labores in hac
visione habeo." "Provo una grande pena - prosegue - in questa
visione, non sapendo fino a che punto posso dire quello che ho visto e udito.
Sì, talvolta, poiché taccio, vengo costretta a letto da tale visione con forti
dolori, così da non riuscire più ad alzarmi... Sono istruita solo interiormente,
nell'anima mia. Perciò parlo come nel dubbio... Più di due anni fa mi sei
apparso in visione come un uomo che guarda verso il male senza paura, che anzi
è molto audace. E ho pianto, perché io spesso arrossisco e mi vergogno... Però
ora mi sollevo e corro a te: tu non vieni stroncato, ma guardi fisso verso
l'albero e sei vittorioso sull'anima. E non elevi solo te stesso, ma sollevi
anche il mondo nella direzione della salvezza. Tu sei l'aquila che guarda verso
il sole... Venerabile padre Bernardo, per forza di Dio, sei meravigliosamente
posto nel più alto onore. Tu sei causa di terrore per la follia di questo
mondo... Padre, ti prego per il Dio vivente: ascolta le mie domande... per il
tuo paterno amore e la tua saggezza, indaga nell'anima tua, così come te lo
suggerisce lo Spirito Santo e, dal profondo del cuore, dona conforto alla tua
serva." Bernardo le rispose, nel 1147 durante un suo iter germanicum:
cauto, prudente, riferì tutto alla grazia di Dio: "Alla diletta in Cristo
figlia Ildegarda, il fratello Bernardo, noto come abate di Clairvaux, invia la
preghiera di un peccatore, se può qualcosa. Che dalla mia pochezza tu sembri
avere un'opinione ben diversa da quella che ne ha la mia coscienza, credo sia
da attribuire solo alla tua umiltà. Ma non ho affatto trascurato di rispondere
alla lettera che ti ha dettata la tua carità, benché il cumulo degli affari mi
obblighi a farlo molto più brevemente di quanto vorrei. Mi rallegro per la
grazia di Dio che si manifesta in te. E per quanto è in me ti esorto e ti prego
di considerarla proprio come grazia e di adoperarti a corrisponderle con tutto
lo slancio dell'umiltà e della devozione, sapendo che "Dio resiste ai
superbi concede la grazia agli umili" Del resto, dato che in te c'è
un'intima consapevolezza e un'unzione che tutto rivela, che cosa ho da
insegnare o da ammonire io? Piuttosto ti prego e ti chiedo supplichevolmente di
ricordarti di me presso Dio e insieme di coloro che sono collegati con me nel
Signore in unione spirituale."
Le opere
Le tre opere più imponenti di Ildegarda sono i suoi scritti
visionari-teologici. Nello SCIVIAS (Conosci le vie), scritto fra il 1141 ed il
1151, in trentacinque visioni c'è la storia della salvezza incominciando dalla
creazione dell'uomo e dal suo primo peccato, per arrivare fino all'ultimo
giorno; la prima parte tratta dell'opera creatrice di Dio Padre, la seconda dei
sacramenti, la terza della vita interiore dell'uomo, la sua intima lotta e le
virtù quale mezzo per salire a Dio. La seconda grande opera, LIBER VITAE MERITORUM
(Libro dei meriti della vita), fu scritta fra il 1158 e il 1163, nella forma di
un dialogo fra vizi e virtù, e tratta del grande tema della ricerca
dell'armonia fra la legge di Dio e la volontà dell'uomo. Ildegarda esamina
trentacinque virtù e trentacinque vizi e descrive la sorte degli uomini beati e
quella di coloro che hanno sciupato la loro vita. Nella terza opera, LIBER
DIVINORUM OPERUM (Libro delle opere divine), scritta fra il 1161 e il 1173,
Ildegarda in dieci visioni descrive la Creazione nel suo stretto rapporto con
Dio, riprendendo l'immagine dell'uomo in una struttura complessa di rapporti
fra microcosmo e macrocosmo. Ildegarda sostiene che l'interazione e l'armonia
nella molteplicità del cosmo sono garantite fintanto che l'uomo obbedisce al suo
creatore. L'uomo può uscire dall'ordine, può violarlo, ma il male porta con sé
il castigo. Di quest'opera ci è rimasta un'antica copia, riccamente illustrata,
conservata presso la Biblioteca Statale di Lucca. Molto interesse hanno
suscitato negli anni recenti le sue opere medico-scientifiche. È Ildegarda
stessa che ricorda di aver scritto delle opere mediche: i due trattati PHYSICA
e CAUSAE ET CURAE si possono perciò collocare fra il 1151 ed il 1158. Di queste
due opere non esistono manoscritti di epoca vicina a Ildegarda, ma solo copie
più tarde. Rimangono perciò molti dubbi se ci siano state delle indebite
aggiunte posteriori, anche perché alcune idee in esse espresse (sulla magia,
sull'influsso degli astri) sono in contrasto con tutta la concezione di Ildegarda.
Anche la produzione musicale di Ildegarda è molto vasta. Le sue 77
composizioni, inni, antifone, sequenze e canzoni (lieder) sono da lei
raggruppate sotto il titolo SYMPHONIA HARMONIAE CAELESTIUM REVELATIONUM
(Sinfonia dell'armonia delle rivelazioni celesti); furono probabilmente in gran
parte scritte negli anni '50 e completate dopo la scrittura del Liber divinorum
operum. A queste composizioni va aggiunto l'ORDO VIRTUTUM (La schiera delle
virtù) un'opera destinata ad una specie di sacra rappresentazione in musica. La
produzione musicale di Ildegarda ci è giunta attraverso due differenti codici,
conservati uno in Belgio ed uno in Germania. Di grande importanza è anche tutta
la corrispondenza di Ildegarda; le più di 300 lettere che ci sono pervenute
sono indirizzate a personalità dell'intero occidente, papi, imperatori e re,
vescovi, abati e badesse, sacerdoti e monaci ed anche laici. Infine si può
menzionare un'opera strana e curiosa, costituita da diversi scritti
crittografici, composti in una "lingua inventata", che ci sono
pervenuti, ma non sono stati tuttora decifrati.
Ildegarda e alcuni dei suoi contributi
Gli uomini hanno elaborato vari modelli dell'universo nelle loro diverse
stagioni culturali, scenari di sfondo, provvisori e insieme essenziali, perché
capaci di 'salvare', di preservare le apparenze, nel senso di raccogliere tutti
i fenomeni in una unità di senso e di realtà. Il modello medievale,
normalmente, non interessava gli uomini spirituali, volti concretamente ai
problemi dell'anima, alla sua caduta e alla sua redenzione. Questi anzi
nutrivano una certa diffidenza nei suoi confronti anche per il fatto che,
allora, cosmologia e religione non erano "semplicisticamente
solidali". Il modello medievale, oggi lo sappiamo, era frutto di fantasia;
non possiamo però dire che fosse falso o menzognero. L'immaginazione medievale
si esercitò in esso con una straordinaria capacità produttiva, alla quale
certamente Ildegarda ha partecipato e attinto allo stesso tempo con grande
libertà. Le sue visioni sono infatti anche originali, straordinarie figurazioni
intellettuali ed immaginifiche (poiché Dio le parlava dall'interno della sua
cultura), sviluppate sulla base dell'immaginario collettivo medievale, nel
quale erano attivi elementi naturalistici e astrologici ereditati
dall'antichità precristiana. Anche da questo punto di vista l'opera di
Ildegarda attende accurati studi. Le importantissime miniature delle sue
visioni a noi pervenute (quelle dello Scivias furono elaborate molto
probabilmente sotto la sua guida) sono immagini simboliche statiche; la santa
vedeva invece immagini dinamiche, che mostravano lo svolgimento della storia
della salvezza ed erano accompagnate dalla "voce della luce vivente",
la "voce di colui che siede sul trono". Alle parole e alle immagini
di Ildegarda occorre prestare un ascolto e uno sguardo memori di quanto ella
stessa diceva di sé: "malata di pusillanimità di cuore e ripetutamente
paralizzata dalla paura, talvolta risuono come un debole squillo di tromba
della luce vivente. Mi aiuti Iddio a perseverare al suo servizio."
La visione unitaria del mondo
Per lunghi secoli, e con sviluppi importanti nelle età precristiane e quelle
cristiane, si sono conosciute le relazioni di somiglianza, veicolate da
identiche rappresentazioni immaginarie, tra le strutture dell'uomo e quelle del
mondo. Se al primo si è guardato come ad un universo completo ma
miniaturizzato, un microcosmo, il secondo è stato visto come un Corpo Totale,
un Tutto umanizzato. Già nel VII secolo Gregorio Magno aveva detto: "Homo
quaedammodo omnia" l'uomo è - in un certo modo - tutte le cose, racchiude
in sé tutti gli ordini della natura (minerale, animato, spirituale) e, più
profondamente, i quattro elementi dell'universo (aria, acqua, fuoco, terra). Nei
primi decenni del XII secolo il tema del microcosmo ebbe grandissima
diffusione, divenne una dottrina a partire dall'interpretazione che, nel IX
secolo, ne aveva dato Scoto Eriugena. La scuola teologica di Chartres fu il
luogo privilegiato dell'approfondimento di questa dottrina, che fa riferimento
al Timeo di Platone, fondato sul parallelismo tra macrocosmo e microcosmo. I
monaci cistercensi la fecero propria e la arricchirono; prestissimo la si trovò
espressa e condivisa in tutti i centri di cultura, partecipata a tutte le
mentalità. L'architettura dell'universo allora nota era quella tolemaica, con
la Terra sferica al centro, i sette pianeti fissi sui sette cieli attorno ad
essa, lo stellatum su cui appoggiavano tutte le stelle. Dopo questo stava il
Primum mobile invisibile, dopo del quale si riteneva non esistesse "né
luogo, né vuoto, né tempo" come aveva detto Aristotele. La cartografia
medievale della Terra, la mappa mundi, era qualcosa a metà strada fra una
realtà geografica , un racconto storico, un universo simbolico. Non serviva al
mercante e al pellegrino, era una visione di sintesi spesso offerta ad un vasto
e vario pubblico nelle chiese o nei conventi. Se il tipo iconografico più
diffuso nel medioevo del rapporto fra microcosmo e macrocosmo, era la figura umana
al centro di uno o più anelli su cui si trovavano raffigurati i segni dello
zodiaco, un motivo nuovo o per la prima volta elaborato con chiarezza è quello
proposto da Ildegarda nel Liber divinorum operum: l'uomo "splendore di
bellezza e di luce" è rappresentato come il nucleo centrale di un cosmo a
cerchi concentrici, abbracciati da Dio uno e trino. L'immagine ha una
struggente somiglianza con quella della Trinità della stessa Ildegarda, che
porta al centro Cristo. Il Rinascimento avrebbe ripreso questa iconografia solo
nelle componenti geometrico-proporzionali, affidando ad esse il valore di
allusione cosmologica. La grande battaglia di Ildegarda è contro l'autonomia
umana, contro l'uomo regolato su di sé e pieno di sé, contro l'uomo che parla
con spirito di empietà: "Non voglio ubbidire né a Dio, né a qualsiasi
uomo! Voglio assicurarmi da solo ogni possibilità che possa recarmi vantaggio,
come farebbe qualsiasi uomo che non sia pazzo!" Quest'uomo causa il
lamento terribile di tutta la creazione: "E udii - scrive la santa - come
gli elementi si volsero a quell'Uomo con un urlo selvaggio. E gridavano: 'Non
riusciamo più a correre e a portare a termine la nostra corsa come disposto dal
Maestro. Perché gli uomini con le loro cattive azioni ci rivoltano sottosopra
come in una macina. Puzziamo già come peste e ci struggiamo per fame di
giustizia.'" Cristo, vincitore di Satana, le dice tuttavia: "Io,
suprema forza di fuoco, che accese ogni scintilla di vita, da cui nulla uscì di
mortale, io decido di tutto ciò che è. Al cerchio dell'universo con le mie ali,
cioè volandogli intorno con la mia sapienza, ho dato il giusto ordine. E di
nuovo io, infiammata vita del divino essere originario, scintillo sulla
bellezza dei terreni dei campi, brillo nelle acque, ardo nel sole, nella luna,
nelle stelle. Con un soffio di vento, invisibile vita che dona pienezza, tutto
trasformo in vita... Dunque io sono la forza di fuoco che segretamente riposa
in tutto questo, tutto arde grazie a me, come il respiro tiene incessantemente in
vita l'uomo e come nel fuoco si leva una fiamma accesa... Io sono anche la
ragione che dispone del soffio del Verbo tonante, da cui ogni creatura venne
creata, in ogni creatura ho destato il mio soffio di vita affinché nulla fosse
prigioniero della mortalità, perché io sono la vita... Poiché da sempre, fin
dall'eternità, era chiaro che Dio voleva veder creata la sua opera personale,
l'uomo, e quando ebbe realizzato tale opera, a lei consegnò tutte le creature,
affinché, servendosi di loro, anche l'uomo compisse le proprie opere, così come
a sua volta Dio stesso aveva creato la sua opera, appunto l'uomo."
"L'uomo è il recinto delle meraviglie di Dio".
La storia
Gli uomini del medioevo hanno fatto della storia del mondo un'unica vicenda,
con un intreccio i cui snodi fondamentali sono la Creazione, la Caduta, la
Redenzione, il Giudizio. Conoscere la storia era dunque per loro conoscere il
destino dell'umanità, nel suo percorso terreno e in quello ultraterreno. È
difficile mettersi nei loro panni, a riguardo di questo problema: "Nel
medioevo si guardava al passato come se fosse contemporaneo; poiché si
ignoravano le più ovvie e superficiali distinzioni tra i secoli, non si pensava
minimamente di considerare e conoscere le differenze più profonde del temperamento
e del clima mentale... Il passato si differenziava dal presente solo perché era
migliore. Ogni epoca pullulava di amici, antenati, protettori." (Lewis).
Quel passato e i suoi protagonisti aiutavano gli uomini ad affrontare le scelte
del presente, poiché tutti erano consapevoli che unico, misterioso, terribile e
carico di misericordia al tempo stesso, era il dramma della storia. Il senso e
lo scopo della storia umana furono problemi profondamente meditati da Ildegarda
e dal suo contesto monastico. Ma - ha scritto giustamente Gronau - ella non era
interessata "al mutamento delle forme della storia dell'umanità. Non
perché, come claustrale, vivesse segregata dal resto del mondo. Il suo cuore
era aperto solo in una direzione, il suo sguardo era orientato verso una sola
cosa: il senso e lo scopo della storia dell'umanità. Ella scriveva
esclusivamente di quello che in esso è importante... nella prospettiva della
rivelazione divina ed è certa che solo in questa prospettiva l'uomo può
realmente conoscere il suo vero posto nella storia e assolvere il proprio
compito..." Per lei dunque la storia è il dramma del contrasto tra Dio e
il suo avversario, un dramma che si svolge nello spazio-tempo della terra e che
si conclude solo quando Dio vince definitivamente il nemico suo e dell'uomo. La
storia dell'uomo, di ogni uomo, è per lei la sequenza di episodi piccoli e
grandi, carichi di tensione e di sorprese a causa della libertà dell'uomo,
della infinita misericordia di Dio e dello spazio lasciato da Dio stesso ai
movimenti del demonio. Quando sulla scena del mondo, con Gesù Cristo, appare
colui che può e vuole strappare gli uomini alla morte dell'anima, l'uomo viene
collocato in una nuova, inedita, posizione: "Quando egli, l'Agnello
innocente, è stato innalzato sull'altare della croce per la salvezza degli
uomini, ivi, nella più pura bellezza della fede e di ogni altra virtù, dal
nascondimento in Dio, apparve improvvisamente la Chiesa, profondo e non
misurabile mistero. Essa venne affidata nel cielo al Figlio unigenito. Cosa
significa questo? Nel momento in cui è sgorgato sangue dal fianco ferito di
questo mio Figlio, allora si è manifestata la salvezza delle anime. Ora,
infatti, quello splendore dal quale era stato cacciato il diavolo con il suo
seguito è assegnato all'uomo. Poiché proprio questi, il Figlio mio unigenito,
prese su di sé la morte con la sua crocifissione, strappò all'inferno il suo
bottino e guidò le anime dei fedeli alle sfere celesti. Così, nei suoi
discepoli e in coloro che li hanno seguiti con cuore sincero, incominciò presto
a fiorire e a rafforzarsi la fede, così hanno potuto diventare eredi del regno
dei cieli". Se, fino alla fine dei tempi, lungo tutto il percorso della
storia che Dio vuol concedere alla stirpe degli uomini, il dramma è aperto, la
libertà dell'uomo è continuamente chiamata in causa, Dio, il regista del
dramma, offre nella Chiesa un misterioso e potente sostegno, pur ammonendola
che: "Il terribile assassino dell'uomo, il figlio della corruzione, verrà
tra non molto, poiché già il giorno declina e il sole rallenta la sua
corsa." Alla fine della storia, Gesù Cristo giudicherà il mondo. Allora:
"Quando è terminato il giudizio, cessa anche l'infuriare degli elementi,
cessano i lampi, tuoni, tempeste, tutte le cose cadenti e caduche si disgregano,
non tornano più, si stabilisce una meravigliosa pace e tranquillità, come
voleva Dio. È terminato il dramma della storia: et finitum est." Il
mistero della storia si intreccia dunque profondamente col mistero della
Chiesa, nella quale l'uomo fa esperienza di essere capace di salvezza; in altri
termini, in Ildegarda "il compimento della creazione avviene nella
Chiesa" (Schmidt), che è garanzia dell'amore costante di Dio alla sua
creazione. Nella Chiesa all'uomo, microcosmo nel grande macrocosmo dell'universo,
sono offerti futuro e salvezza. Essa, popolo nuovo, è la torre salda eretta da
Dio dove gli uomini possono fermamente fronteggiare il nemico. È una torre
aperta al mondo, perché tutti possano entrarvi.
L'eredità di Ildegarda
A conclusione di un dolorosissimo episodio, capitato nel convento di Ildegarda,
nel quale ella aveva mostrato grande obbedienza insieme a forza morale di
straordinaria tenuta, Christian, l'Arcivescovo di Magonza, così iniziava la
lettera di riconciliazione: "Con i segni manifesti della tua santa
condotta di vita e la sorprendente testimonianza della verità, o carissima
signora in Cristo, i tuoi ordini, per non dire le tue preghiere, esercitano un
forte potere sulla nostra anima, tanto che dobbiamo orientare e chinare il
nostro cuore a tutto ciò che sappiamo corrispondere ai tuoi santi
desideri..." Alla 'carissima signora in Cristo' tornano a guardare gli
uomini di oggi, con meraviglia e ammirazione. Raramente però essi sono in
possesso degli strumenti indispensabili per comprendere il suo messaggio e per
condividerne l'umanità. Ildegarda infatti si è resa disponibile ad essere eco
di una Voce, che dall'eternità penetra continuamente nel tempo e nello spazio,
con una docilità e una semplicità di intenzioni, che non possono essere capiti
con immediatezza dall'uomo d'oggi. Il suo convento, la Chiesa del suo tempo, la
civiltà cristiana, in tutti i suoi aspetti, di una stagione ricca di frutti,
sono matrici non occasionali della sua personalità, in tutte le sue espressioni.
L'affettuosa tenerezza delle sue compagne di viaggio, le monache del suo
convento, che hanno conosciuto la stessa matrice di fede e cultura, è stata
premiata da Dio, alla morte di Ildegarda, con un grande segno: "Con la sua
morte Dio mostrò chiaramente i meriti che essa aveva presso di lui. In cielo,
al di sopra della stanza nella quale la beata vergine restituì a Dio l'anima
beata, apparvero due luminosissimi archi di diverso colore. Essi occupavano uno
spazio molto esteso e si allungavano verso i quattro punti della terra, uno da
nord a sud e l'altro da est a ovest. Nel punto più alto in cui si incontravano
i due archi brillava una luce chiara a forma di luna. Essa splendeva in
lontananza e sembrava dissipare le tenebre notturne dal letto di morte. In tale
luce si vedeva una croce rossa splendente, in un primo momento piccola, poi
però sempre più grande, fino a raggiungere dimensioni gigantesche. La croce era
attorniata da cerchi di vari colori nei quali si formavano altre piccole croci
rosse splendenti. Dopo essersi allargate nel firmamento, si allungavano ancora
verso est e sembravano chinarsi sulla terra proprio sopra la casa in cui la
beata vergine era passata a miglior vita, avvolgendo tutto il monte di luce
radiosa. Ci viene spontaneo credere che con un segno simile Dio abbia voluto
manifestare su questa terra con quale pienezza di luce ha magnificato in cielo
la sua amata." In questo segno è forse racchiuso il senso globale
dell'eredità di Ildegarda: ogni uomo, come lei, è destinato ad una pienezza di
luce che il creato, nel suo splendore, in qualche modo anticipa e che Cristo ha
preannunciato nel sacrificio della croce. A lei, carissima signora in Cristo,
cioè donna che ha concentrato la sua vita in una devozione senza riserve a
Cristo, si volge da più una attenzione misteriosamente inscritta in quel
desiderio di Dio che non abbandona mai l'uomo, per sua fortuna. "... la
Chiesa desidera ringraziare la Santissima Trinità per il 'mistero della donna'
e per ogni donna... La chiesa ringrazia per tutte le manifestazioni del 'genio'
femminile apparse nel corso della storia, in mezzo a tutti i popoli e a tutte
le nazioni; ringrazia per tutti i carismi che lo Spirito Santo elargisce alle
donne nella storia del popolo di Dio, per tutte le vittorie che Essa deve alla
loro fede, speranza e carità; ringrazia per tutti i frutti di santità
femminile." (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem).