Occorre pregare sempre,
senza stancarsi mai: Dio ascolterà

Lectio di Luca 18,1-8

 

 Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2"In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". 4Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"". 6E il Signore soggiunse: "Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?".

 

Nei "Racconti di un pellegrino russo" il protagonista, assetato di preghiera dice: «Cercai nella mia Bibbia e anche lì trovai scritto che occorre pregare incessantemente, pregare in ogni istante con lo spirito e levare le mani in preghiera in ogni luogo…» . Anche gli antichi monaci non prendevano questo monito come una devota esortazione, ma come un comandamento del Signore: «Non ci è stato prescritto – afferma Evagrio Pontico – di lavorare, vegliare, digiunare sempre; mentre ci è stata data la legge di pregare incessantemente». Nei monasteri romeni spesso viene recitato ancora oggi il «salterio perpetuo», pratica che consiste nel fatto che in chiesa vi è sempre un monaco incaricato di recitare i salmi, nei tempi liberi dagli altri impegni. Si tentarono nelle diverse tradizioni spirituali diverse strade, talvolta fuorvianti, per ottemperare a questa richiesta contenuta nella Scrittura. In ogni caso ciò testimonia come la preghiera fosse ritenuta essenziale per la vita del credente.

Tuttavia, tutti questi sforzi, anche se lodevoli, non soddisfano il testo di san Paolo che suppone che ogni cristiano, e non solo la comunità, preghi senza interruzione. La soluzione classica al problema la possiamo leggere in Origene: «Prega sempre colui che unisce la preghiera alle opere che deve fare, e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo considerare realizzabile il precetto di pregare incessantemente». In questo senso, tutta la vita del cristiano può essere considerata una grande preghiera, di cui ciò che abbiamo l’abitudine di chiamare preghiera è soltanto una parte.

Pregare è il respiro dell'anima; e come il corpo se non respira sempre muore, così è della vita spirituale: senza preghiera muore. Pregare sempre è vitale, non è un "optional" riservato a qualche anima particolarmente devota.

Chiediamo anche noi la grazia di sentire l'urgenza della preghiera, di riconoscere la sua importanza fondamentale, e soprattutto chiediamo allo Spirito di insegnarci a "pregare sempre senza stancarci mai".

"O Cristo Gesù, una volta i tuoi apostoli vennero a te domandando: “Signore, insegnaci a pregare”. Perciò ti diciamo anche noi: “Signore, insegnaci a pregare”. Insegnaci a comprendere che senza la preghiera il mio intimo inaridisce e la mia vita perde consistenza e forza. Rimuovi da me le chiacchiere degli avvenimenti e delle necessità, dietro le quali si nascondono pigrizia e rivolta. Dammi serietà e salda decisione e aiutami, con l’obbedienza e l’abnegazione, a imparare ciò che è indispensabile per la salvezza. Guidami alla tua santa presenza. Insegnami a parlarti nella serietà della verità e nell’intimità dell’amore. Amen. (Romano Guardini, Preghiere teologiche).


Lectio


"Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai" (v.1). Immediatamente prima di questo versetto troviamo la cosiddetta "piccola apocalisse" in cui Gesù annuncia il suo ritorno alla fine dei tempi portando così a compimento il disegno del Padre. Ora qui egli ricorda, proprio in vista di questo tempo di attesa, la necessità di non desistere dalla preghiera di modo ché il cuore rimanga sempre vigile. 

Ricordiamo come la raccomandazione di "pregare senza stancarsi" è una costante soprattutto nel vangelo di Luca, negli Atti come anche molte volte nel resto del Nuovo Testamento. Il testo sottolinea la "necessità" della preghiera. In greco viene utilizzata la parola "dein" che nel nuovo testamento è quasi sempre posta in relazione alla passione colta come passaggio obbligato per il compimento della missione del Messia. Usandola qui si ricorda alla comunità che la preghiera è un momento indispensabile per chi desidera seguire fedelmente i passi del Maestro senza disertare dalla croce.

Si accenna poi alla preghiera vissuta “senza stancarsi”. Qui Luca riporta una espressione tipicamente paolina: "mē enkakéin" che significa “senza lasciar cadere le braccia, senza scoraggiarsi”. Sembra qui che il testo ci rimandi alle braccia alzate di Mosè che intercedeva per la salvezza del popolo impegnato in battaglia. Nel linguaggio paolino con tale espressione non si fa dunque tanto riferimento alla stanchezza fisica, quanto all'abbandono delle armi da parte di un soldato durante il combattimento, il disertare il campo in preda allo scoraggiamento e alla paura.

In effetti la nostra parabola non punta solo sulla necessità della preghiera, quanto sulla certezza in Dio che, nonostante il ritardo, farà alla fine certamente giustizia ai suoi fedeli.

vv. 2-3: In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". Qui vengono delineate le caratteristiche dei due protagonisti della parabola: un giudice e una vedova.
Il giudice è descritto in modo conciso come la figura tipica dell’empio, che "non teme Dio" e "non si cura del suo prossimo".

Anche la vedova viene descritta in modo essenziale. Nella Scrittura le vedove, insieme agli orfani, rappresentano la categoria indifesa dei "poveri di JHWH", esposta all’oppressione degli sfruttatori e dei prepotenti (cfr. Es 22,21-23; Is 1,17.23; 9,16; Ger 7,6; 22,3). Tuttavia la nostra vedova pur appartenendo a questa categoria, non è disposta a subire il sopruso di cui è vittima, perciò si rivolge al giudice per avere giustizia.

vv. 4-5: Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fasti­dio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi". Il giudice non vorrebbe interessarsi del caso presentatogli dalla vedova. Per lui è totalmente insignificante e quindi rimanda a tempo indeterminato il suo intervento. Il giudice appare come una persona cinica alla quale interessa soltanto il proprio interesse e non i bisogni delle persone.

Ma la donna non si rassegna e fa ricorso all’unica sua possibilità, ovvero l’insistenza. All’insistenza della donna il giudice cambia pensiero. L’evangelista usa qui il termine “importunarmi”, letteralmente è “a farmi un occhio nero”. Non significa tanto che questa vedova desideri colpire con un pugno il giudice, ma era un’espressione che significava “danneggiare la reputazione”. Quindi alla fine il giudice, se non altro per liberarsi dalla molestia, cede e le fa giustizia (ekdikeô): ciò che prevale in lui non è il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più importunato.

vv. 6-7: E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Gesù a questo punto offre l'interpretazione della parabola. Questa lettura è data dalla domanda che egli pone: «Ma Dio non farà giustizia per i suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?». L'accento non è posto sull'insistenza della vedova, ma sulla figura del giudice. Se un giudice ingiusto per motivi egoistici acconsente alle richieste insistenti di una vedova, quanto più Dio, che è padre buono, ascolterà le grida di implorazione dei suoi eletti. Basandosi sul metodo rabbinico chiamato "qal wahomer" (ragionamento a fortiori), egli afferma che, se un giudice empio, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, a maggior ragione Dio farà farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è Padre.
L’espressione «fare giustizia (ekdikêsin)», usata sia per il giudice che per Dio, significa difendere i diritti di una persona, darle ragione, garantirle quello che le spetta. Per gli eletti ciò significa a certezza che Dio interverrà in loro difesa mettendosi dalla loro parte: questo è il punto saliente della parabola.
Ma Gesù aggiunge ancora una domanda: «E tarderà nei loro riguardi?». Da questo interrogativo sembrerebbe che il tempo dell’attesa sarà breve: Dio farà presto giustizia agli eletti che gridano a lui. Ma questo non è in sintonia con quanto Luca più volte ripete nel suo vangelo, e cioè che la venuta finale del regno di Dio non è imminente. Perciò sembra più corretto interpretare queste parole non come una domanda, ma piuttosto come una frase concessiva: «Anche se egli ha pazienza (makrothymei) con loro». In altre parole: Gesù esorta la sua comunità a non spaventarsi per il fatto che Dio tarda a intervenire. Al momento opportuno, che solo lui conosce, certamente interverrà.
v. 8: Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?. Questa ulteriore domanda fa sì che la comunità si interroghi se vive in un'incessante e fiduciosa pazienza, certa che Dio risponderà anche se tarda. Perciò Gesù conclude rassicurando i suoi discepoli: «Dio farà giustizia con celerità (en tachei)», che bisognerebbe però tradurre meglio  con «improvvisamente». Dio, dopo aver lungamente pazientato, interverrà quando meno gli uomini se lo aspettano e farà giustizia ai suoi eletti.

La parte finale del v. 8 chiude con una domanda che è una aggiunta posteriore che ha lo scopo di sollecitare la perseveranza nella fede. Il ritardo della risposta da parte di Dio alla preghiera può portare ad un raffreddamento della fede. È necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere subito il risultato. Perciò i discepoli devono mantenere un atteggiamento di vigilanza, perché Gesù al suo ritorno non li trovi impreparati.

 

Meditatio

 

S. Paolo afferma: "State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie"; "pregate senza mai smettere con ogni sorta di preghiera e di suppliche nello spirito"; "perseverate nella preghiera e vegliate in essa", "giorno e notte" (1Tess. 5,16 ss.; Ef. 6,18; Col. 4,2; 1Tim. 5,5). Ma come faremo a stare sempre in preghiera? Credo che la risposta si trovi nel cercare di mantenere l’orientamento permanente dell’anima verso Dio.

Spesso si sente dire che il lavoro, la sofferenza e l’attività umana sono già preghiera; lo possono diventare ma non automaticamente. Lo diventano solamente se il cristiano ha intrapreso un serio cammino di orazione, se ha imparato ad unire la sua volontà alla volontà di Dio, se vive e agisce all'ombra dell’amore di Dio.  Solo allora possiamo far nostre le parole di Paolo: "Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio" (1Cor 10,31). In questo modo la nostra preghiera permeerà la vita poiché si estenderà ad ogni istante della nostra esistenza. S. Girolamo descrive una bellissima scena che dovrebbe realizzarsi in tutti i nostri luoghi di lavoro: "In questo luogo di Cristo dove dimoro (parla di Betlemme) tutto è semplicità, tutto è silenzio, fuorché il canto dei Salmi. Dovunque ti volgi, il contadino che ara, tenendo l’aratro, canta l’alleluia; il mietitore che suda si esprime con i salmi; il vignaiuolo che pota la vite, canta qualche strofa di Davide. Questi sono i canti della campagna; queste, come suol dirsi, le canzoni di amore, questo il fischio dei pastori, queste le armi dell’agricoltura".

Ma cosa significa pregare sempre, senza stancarsi mai? Che cosa dobbiamo chiedere di così importante?

Secondo le stesse parole di Gesù, una cosa sola: lo Spirito Santo. Nel passo della vedova che importuna il giudice disonesto (cfr. Lc 18,1-8) Gesù pronuncia una frase che suona contraddittoria: come può dire che Dio esaudisce prontamente quando ha appena ricordato che i suoi eletti debbono bussare giorno e notte nella speranza di essere un giorno esauditi? La risposta va cercata in un altro passo: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Lc 11, 13). Dio esaudisce prontamente ogni richiesta di Spirito Santo, vale a dire l'anelito del cuore che non si accontenta delle cose che provengono da Dio, ma che cerca proprio Dio, l'incontro, l'intimità con Lui. Allora, per le cose di cui abbiamo bisogno vivremo nella fiducia che Dio disporrà ogni cosa per il nostro bene: "Cercate piuttosto il suo regno, e queste cose vi saranno date in aggiunta" (Lc 12,31). Così la preghiera diviene, come per la vedova importuna, la palestra dell'addestramento all'arte dell'apprendere l'abbandono in Dio, del dare credito al suo amore e cercare di stare con Lui, non di avere solo i suoi doni. Se la preghiera è questo, allora non c'è preghiera che non venga esaudita. Dio cerca adoratori "in spirito e verità" (Gv 4), non semplicemente 'consumatori', 'utenti', 'fruitori', 'clienti', termini che ben si addicono a quanti ricercano, usando le parole di san Francesco di Sales, "le consolazioni di Dio e non il Dio delle consolazioni".  

Per noi che viviamo un'umanità senza profondità e senza intimità, che abbiamo paura di mostrarci in verità, che siamo prigionieri di un timore che portiamo latente dentro di noi, timore che ci chiude in un certo disprezzo di noi stessi, nella diffidenza verso gli altri e, per contrapposizione, come forma di autodifesa, nell'arroganza e nell'aggressività, cosa significa cercare lo Spirito Santo? Almeno tre cose.

La prima è che la preghiera non è anzitutto questione di concentrazione o di tecniche meditative. E’ invece un progressivo scendere nel cuore dove si irradia la grazia del Signore vivente; dove scopriamo che il nostro essere è creato ad immagine del Figlio. Dinanzi a questa scoperta il cuore si allarga alla fiducia e alla gioia.

La seconda cosa è che lo Spirito abbraccia tutta la nostra vita e con essa tutta la banda dei nostri sentimenti. Nella preghiera temiamo di lasciare spazio ad essi, ne usiamo alcuni ma la maggior parte di essi non ne sono coinvolti. Alla scuola della vedova della parola e dei salmi al contrario constatiamo come essi divengano l'espressione di una umanità che grida, impreca, implora, ringrazia, loda. In un contesto di fiducia, tutta la gamma dei nostri sentimenti deve passare nella preghiera, senza timore, perché tutto il cuore, in sincerità, stia aperto davanti a Dio. Purtroppo la nostra preghiera priva di essi diventa solo un esercizio cerebrale. Quello che mi sembra manchi al nostro desiderio di esperienza spirituale è il fatto che non parte sinceramente dal cuore, ma piuttosto dalla testa.

Un terzo aspetto è che la preghiera autentica deve diventare il luogo dell'incontro con l'Altro, della sua accoglienza nella mia vita. Se non ci apriamo a questa dimensione tutto e tutti (compreso Dio) sono in funzione di me, mi servo di essi per affermare me stesso, in una pretesa solitudine autosufficiente. Ma noi siamo stati creati per la relazione, la comunione, per l'incontro d'amore con l'altro, anzitutto con Dio. Ora la preghiera è il luogo che svela al nostro cuore l' esigenza assoluta di essere in relazione. Essa ci accompagna lungo la via per realizzare questa vocazione fondamentale, perché fa cadere ogni pretesa di egoismo o autosufficienza, di fronte a Colui che ci chiama a partecipare alla sua beatitudine dell'amore.

Guardando poi all'insegnamento sulla preghiera presente nella Scrittura mi sembrano emergano alcuni atteggiamenti essenziali.

Anzitutto che la preghiera non sboccia in conseguenza della capacità di usare un metodo più o meno appropriato, ma unicamente in conseguenza della capacità di essere obbedienti ed umili, i due segni di riconoscimento del pentimento. La povera vedova non si preoccupa del metodo da adottare ma con umiltà e costanza fa presente la sua condizione secondo verità. La concentrazione necessaria alla preghiera non deriva tanto dallo sforzo di introspezione psicologica o di attenzione mentale, ma dalla intensità del nostro pentimento, dal lucido riconoscimento del nostro essere poveri e bisognosi. Talvolta non siamo sinceri davanti a Dio (ancor meno davanti agli altri e spesso davanti a noi stessi). Dove non c'è sincerità non c'è intimità e dove manca intimità l'incontro è freddo e banale. Imparare ad essere sinceri, fino in fondo, senza barare, è la credenziale migliore alla porta del cielo.

Per imparare a pregare è poi necessario disporsi alla lotta spirituale, alla lotta contro ogni tipo di ‘pensiero’ che mira a possedere il nostro cuore alienandolo. La vedova "lotta" con il giudice, non si distrae dalla sua supplica. Diversamente da quanto ci si immagina, la preghiera, per diventare spontanea e forte, deve prima essere tenace. Non è così facile pazientare con il proprio cuore, accettare i suoi tempi, accettare i tempi di Dio, in tutta pace. Questo esige una "lotta" contro la tentazione di desistere, del lasciar perdere non vedendo subito i risultati, nel sospetto che la preghiera incessante sia alla fin fine inutile. Vediamo in tutto questo che non è così agevole entrare nel proprio cuore per poterlo offrire fiduciosamente, tutto, a Dio certi del suo soccorso. Scrive san Giovanni Climaco nella sua "Scala": Non ci stanchiamo di pregare il Signore, noi tutti che siamo ancora in balia delle passioni: per questa via dell’orazione passarono tutti coloro che dalla passionalità giunsero all’impassibilità. Quando è parecchio tempo che preghi non dire: non ho guadagnato nulla! Perché hai guadagnato abbastanza: qual dono più sublime che aderire al signore e perseverare con lui in questa adesione continuamente?... L’amore del soldato verso il re lo mostra il tempo della guerra: l’amore del monaco verso Dio lo prova il tempo dell’orazione e il rimanere alla sua presenza. La tua orazione ti rivelerà il tuo stato: essa è chiamata dai teologi lo specchio del monaco… Chi possiede il Signore non si prefigge più determinate formule nella sua orazione perché allora c’è lo Spirito in lui che intercede per lui con gemiti inenarrabili.

 

 

Oratio

 

Prega con coraggio
perché gli ostacoli non mancheranno,

a partire dal diavolo,

avversario della tua preghiera che,

come leone ruggente,

si aggira cercando chi divorare,

fino alle mille sollecitazioni
che ti vengono dall’esterno
e alla pigrizia innata che ti invade.

Ricordati della promessa del profeta:

“Coraggio, figli miei, pregate Dio:

egli vi strapperà alla violenza
e alla mano dei vostri nemici”.

Al termine di questa ricerca,

troverai la pace.
(Libro di vita delle Fraternità Monastiche di Gerusalemme)

 

 

 

 

 

 

Attilio Franco Fabris
Monastero di Sant'Andrea

Abbazia di Borzone

16041 Borzonasca - Ge
www.abbaziaborzone.it