Entrò in una caverna

Lectio di 1Re 19,4-16

 

4Elia s'inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». 5Si coricò e si addormentò sotto la ginestra. Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». 6Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d'acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò. 7Tornò per la seconda volta l'angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». 8Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l'Oreb.
9Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». 10Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». 11Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. 13Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna.  Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: «Che cosa fai qui, Elia?». 14Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». 15Il Signore gli disse: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco»".

 

Thomas Merton, monaco trappista americano (1915-1968), scrisse a proposito della solitudine: "La vita solitaria, essendo silenziosa, dissipa la cortina di fumo delle parole, posta dall’uomo tra la sua anima e le cose. Nella solitudine rimaniamo faccia a faccia con la nuda essenza delle cose. Eppure scopriamo che la crudezza della realtà, da noi temuta, non è motivo né di paura né di vergogna. Viene ricoperta nell’amichevole comunione del silenzio, e questo silenzio è legato all’amore" (Pensieri nella solitudine). In effetti abbiamo timore di inoltrarci in tempi e spazi di silenzio e solitudine, timore d' "entrare nella nostra stanza e chiudere la porta". Accampiamo molte scuse ma nel profondo avvertiamo che si tratta di paura, fuggiamo da noi stessi, dalla necessità di scoprire o riscoprire la nostra identità al di là delle mille maschere che indossiamo a seconda delle occasioni.

Ma se accettiamo la sfida di entrare nella "stanza chiusa", la solitudine e il silenzio disintegrano "la cortina di fumo" con cui spesso avvolgiamo la nostra vita e il nostro servizio, essa ci pone "a faccia con la nuda essenza delle cose". Lasciarci spingere dallo Spirito nel deserto, come Gesù, è una grande grazia apportatrice di gioia e vita perché ci permette di far riemergere la nostra fondamentale identità di figli amati infinitamente dal Padre, creati per vivere in comunione con lui e con i nostri fratelli.

Invochiamo allora lo Spirito con le parole di un antico monaco siriano, Isacco di Ninive: "Santifica, mio Signore, i nostri cuori e riempili con lo Spirito della tua magnificenza. Per mezzo del santo ricordo di te, essi ricevono lo Spirito della gioia. Crea in noi, mio Signore, un cuore nuovo e infondi in noi uno spirito nuovo, affinché nel rinnovamento del nostro pensiero ci rivestiamo della veste del regno".

Lectio

 

Il brano che vogliamo meditare ci introduce nel momento centrale della vita del profeta Elia. Si tratta di un momento estremamente difficile e sofferto della sua vita: Dio sembra lontano e sconfitto, egli deve mettersi in fuga dalla regina Getzabele che lo vuole far assassinare, gli sembra di aver fallito la missione di riportare il popolo di Israele alla fede. Nella sua fuga in pieno deserto in preda alla disperazione, preso dalla paura e dallo sconforto, chiede a Dio di farlo morire talmente non ne può più (v.4). Proprio in questo tragico momento Dio interviene: gli offre cibo e bevanda per il corpo (v.7) ma soprattutto trasforma la sua fuga disperata in un pellegrinaggio con una meta (v.8): il monte di Dio dove egli gli dà appuntamento.  

Elia vi giunge dopo un cammino simbolico di "quaranta giorni e quaranta notti " e qui entra "in una caverna" (v.9). Il riferimento parallelo a questo luogo è sicuramente l'anfratto in cui Mosè si rifugiò per proteggersi dal fuoco divoratore del passaggio di Dio che gli si rivelava (Es 33,21-22). Elia qui rivivrà la stessa esperienza di Mosè. L'incontro con Dio avviene senza testimoni, in piena solitudine, e di notte: sono il tempo e il luogo che nella Scrittura sono i preferiti dell'agire di Dio.

Dio si rivela ad Elia in due modi: mediante la parola e mediante la teofania. Ci viene riportato anzitutto il dialogo serrato tra Dio, che ne ha l'iniziativa, e il profeta che viene interpellato. Gli viene posta una semplicissima ma fondamentale domanda: "Che fai qui, Elia?" (v.9). Domanda che sarà ripetuta ancora una volta come non bastasse. Il Signore chiama Elia per nome invitandolo al dialogo personale ma perché questo sia proficuo e vero nello stesso tempo lo invita a scendere nel profondo di se stesso, a   definire la sua identità: chi è? cosa sta cercando? dove sta andando?   che cosa veramente vuole? 

Elia risponde con una lamentela (v.10): piange il proprio fallimento in quanto vi scorge una sconfitta di Dio stesso. Sembra sentirlo dire: Mio Dio tu ti sei lasciato sconfiggere, e per questo sono fuggito. In altre parole: la mia vita non ha più senso; il tuo fallimento è il mio.     Elia si sente "solo" perché "tutto" il popolo è divenuto, a suo parere, totalmente infedele: "Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita". Elia che ha perso in certo qual modo la sua identità, non ha la lucidità per rendersi conto che la realtà è più sfumata di quel che crede, e infatti il suo giudizio sarà corretto dal Signore stesso.

A Dio il compito di riportarlo alla verità: Dio gli manifesterà la sua identità e di conseguenza aiuterà Elia a riscoprire la sua. Ecco allora l'invito: "Esci e férmati" (v.11). Uscire è aprirsi al nuovo, fermarsi è smettere di fuggire. E' il momento della teofania. Elia si copre il volto mentre Dio lo scopre: è il paradosso di ogni manifestazione di Dio.

"Il Signore passò": è il passaggio di Dio nella vita del profeta.  L'esperienza qui descritta è unica nella Bibbia e di difficile interpretazione.  Sono descritte quattro manifestazioni del passaggio di JHWH di cui l'ultima contrasta fortemente con le prime tre. Tale narrazione offre almeno tre piste di interpretazione. Vi è l'interpretazione polemica contro la religione pagana combattuta dal profeta in cui Baal è il dio della tempesta e del terremoto: la brezza leggera di contrasto ribadirà che JHWH non è nel "tremendum" pagano che distrugge e spaventa. Una seconda interpretazione collega il nostro episodio all'esperienza di Mosè sul Sinai - la teofania di fuoco del Sinai provocava la paura nel popolo di Israele (Es 20,18 cfr Sl 29; Dt 4,24; Gb 38,1; Sal 18; Es 19,16-19) - ma nello stesso tempo è quasi ne prendesse le distanze: ora di contrasto abbiamo una "brezza leggera", espressione che è un rompicapo esegetico difficile da tradurre: "mormorio di un vento leggero", una "calma permeata da una lieve voce", un "silenzio sottile". Vi troviamo simultaneamente il concetto di suono e di silenzio. Infine abbiamo un'interpretazione alla luce delle stesse esperienze di Dio fatte da Elia.  Egli ci appare da subito come "un violento per il Regno di Dio" (cfr Mt 11,12), un profeta "di fuoco" (Sir 48,1): è impetuoso, intollerante e castigatore. Ci si aspetterebbe perciò una teofania confacente al suo modo di intendere Dio, ma ecco che qui il Signore delude le sue attese facendoglisi vicino in un modo nuovo e inaspettato nella pace e nella dolcezza e non nel fuoco divoratore. JHWH vuole indicare la via della misericordia e della pace con cui egli vuole visitare e salvare il suo popolo. Non per nulla alcuni padri vedono in questa scelta di Dio un sottile rimprovero al profeta; ad esempio lo pseudo Efrem commenta: "Anche con questo simbolo Dio biasima lo zelo eccessivo di Elia, come per dire: Oh Elia, guardami. Io non mi compiaccio nella veemenza del vento, Né della grandezza del terremoto, né nell'ardore del fuoco, ma mi sono manifestato a te con una parola dolce. Perché dunque non imiti la dolcezza del tuo Signore e non addolcisci questo zelo bruciante di castigare i figli del tuo popolo, per diventare supplice nei loro confronti, e non il loro accusatore?" Anche il Siracide commentando questo episodio dà la stessa interpretazione: "Tu Elia che udisti al Sinai un rimprovero" (Sir 48,7-8).

Dopo la teofania ne segue un dialogo illuminante. Elia è chiamato a ridefinire la sua identità di profeta. Dio certamente ammira il suo zelo ma non apprezza che egli parli male dei suoi figli. Nessuno può farsi accusatore dei fratelli e criticarli.  Il Signore corregge con realismo tutta l'interpretazione teologico, storico-salvifica, che Elia aveva fatto sua e per la quale era caduto nella disperazione: crede di essere rimasto solo, in qualche modo si crede il migliore anche se sconfitto. Ma Dio gli ricorda che esiste un "piccolo resto" ("settemila persone fedeli a JHWH") e che dunque non è il solo rimasto fedele. Così Dio ribadisce che non intende rompere irato l'alleanza, non vuole abbandonare il suo popolo, il patto poggia sulla fedeltà di Dio, è sempre in vigore, non ve ne sarà mai un altro. 

A questo punto Elia viene rimandato da Dio sui suoi passi, là da dove era fuggito (vv. 15-17), non senza che gli venga rinnovato il mandato profetico, vissuto però in modo nuovo, dovuto ad un incontro straordinario capace di svelare l'identità vera di Dio e quindi anche la sua.

 

Collatio

 

Nella vicenda dei grandi personaggi biblici, e non solo nelle nostre, assistiamo a momenti in cui sembra che ogni cosa vada per il verso sbagliato, che si sia caduti in un grande abbaglio, che si sia sbagliato tutto. Basti pensare a Mosé, a Geremia, a Giobbe, a Tobi e a tanti altri santi.  Anche il brano commentato ci presenta il profeta Elia nel deserto, sprofondato in questa esperienza: la sua foga sembra svanita nel nulla, esaurite tutte le sue energie e le sue feree sicurezze. Ora ci appare come un uomo distrutto che non sa più né chi è né cosa è chiamato a fare. Tutto sembra sprofondato nel vortice del non senso e dell'inutilità. Il cielo appare di piombo e Dio sembra assente. Come Elia nel deserto siamo allora tentati di dire: Non ce la faccio più, lasciami piuttosto morire, perché la mia vita non ha più senso.

E' una fase certamente lacerante, dolorosa, di cui non si intravvede una soluzione, ci si trova immersi nell'oscurità, i salmi ne parlano come uno scendere nella fossa, un camminare nel buio. E' il momento della prova, del crogiuolo, passaggio obbligatorio per ogni autentica crescita umana e spirituale. Scrive a questo proposito p. Amedeo Cencini scrive: "Lo sviluppo umano e spirituale dell’uomo ha assolutamente bisogno di una fase negativa, segnata dal non avere, dal non essere, dalla distanza, dalla non gratificazione, dall’alterità. La tensione creata da queste situazioni con le conseguenze di vuoto, di solitudine, financo di delusione, di percezione del proprio limite, può funzionare come una molla potente per una ricerca ulteriore, per una domanda rivolta altrove, sempre più in alto. È una tensione creata dall’assenza, ma che può portare alla scoperta di una presenza" (Com’è bello stare insieme).

E' essenziale impedirci di fuggire, ne va del nostro cammino di crescita e guarigione. Occorre accettare di intraprendere un "cammino lungo" verso la caverna del nostro cuore, così si esprimono i mistici. E' una discesa solitaria in noi stessi, al fine di ritrovare il profondo desiderio che ci abita, ma sotto gli occhi di Dio: qui ci è dato di fare verità, di riscoprire il segreto e il mistero che siamo noi stessi. Nella vita di Benedetto scritta da s. Gregorio Magno descrivendo il periodo di solitudine vissuto dal santo nella caverna di Subiaco dopo la delusione dell'esperienza vissuta a Vicovaro è detto: "Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di Colui che vede tutto". Come Elia, anch'egli, come noi ad un certo punto dobbiamo accettare di entrare "nella caverna", "nella propria stanza e chiudere la porta", lasciando fuori il cicaleccio e le fantasmagorie del mondo, rimanendovi solo sotto la luce dello sguardo di Dio: qui ritroviamo noi stessi.  Se mancasse questo desiderio e coraggio la vita rischierebbe di risolversi solo in una perenne fuga da noi stessi, in un girovagare senza alcuna vera meta. Per questo Dio dirà ad Elia: "Fermati!".

Nel testo è detto che una prima salvezza è posta dinanzi ad Elia: un po' di pane, un sorso d'acqua fresca e l'invito a riprendere il cammino. Così la sua fuga si trasforma in un pellegrinaggio con una meta precisa: il monte santo di Dio. Sapere dove si va è già gran cosa. E fortunatamente Elia accetta l'invito. A tutti viene data questa grazia, in svariati modi quando ci troviamo nella situazione di Elia: sempre vi sarà "un angelo di Dio" che ci inviterà ad alzare lo sguardo, a rialzarci e a riprendere la strada con un po' di pane e un sorso d'acqua fresca. Se si accetta tale invito si inizia già ad uscire dal vortice dell'autodistruzione in cui, se non ci si muove, si sprofonda come nelle sabbie mobili: si intuisce che la soluzione dei problemi non sta nella fuga, ma nell'incontro con l'Altro, con Dio.

Giunto al monte di Dio il profeta entra nella "caverna": è il luogo dell'incontro con Dio e della sua trasformazione interiore. E' interessante richiamare la ricchezza simbolica inerente alla "caverna": essa simbolizza un ritorno nelle viscere materne, ma essa è anche un abisso da cui emergono pericoli e mostri e in questo simbolizza anche la morte e il sepolcro. In questo la caverna è paragonabile al nostro fonte battesimale  e nella spiritualità monastica, soprattutto eremitica, essa trova riscontro nel tema della "cella". Bastano solo questi pochi accenni per comprendere come attraverso l'immagine di Elia racchiuso nella caverna ci venga detto che per lui è iniziato un tempo di "revisione di vita", una "rinascita", che è una nuova riscoperta sia di Dio che di se stesso. Ma questo passaggio esige una morte: la morte di quell'Elia che ha costruito la sua identità su un'immagine di Dio distorta. Dio gli chiederà di aprirsi ad una rivelazione nuova: scoprire che Dio non è terremoto, fuoco o tempesta ma è "mormorio lieve", mistero avvolto dalla "brezza soave" della sua misericordia che è fedeltà e perdono per il suo popolo e non fuoco distruttore e vendicatore.

Così nel silenzio e nella solitudine della notte, presso la caverna, Elia scopre una valenza diversa, più matura, della sua identità di profeta. Silenzio e solitudine sono indispensabili quando si tratta del cammino alla ricerca della propria identità: non è possibile la divagazione, la dispersione, la superficialità, l'attivismo fine a se stesso: il miracolo avviene sempre nel profondo silenzio della propria coscienza posta dinanzi a Dio. Il grande solitario del Sahara, il beato Charles de Foucould scriveva:  "Il deserto mi riesce profondamente dolce, è dolce e salutare porsi nella solitudine di fronte alle cose eterne; ci si sente invasi dalla verità" (Lettera a M.me de Bondy). Essere "invasi dalla verità" significa essere riempiti di Dio che ci svela chi siamo realmente.

Cosa fare perché tutto questo avvenga? Una cosa semplicissima ma esigente: lasciarci raggiungere dalla stessa domanda posta ad Elia dal Signore: "Che cosa fai qui? Cosa cerchi?". Non è d'altra parte la stessa domanda che san Benedetto nella Regola (cap 60) chiede all'abate di porre a chi bussa alla porta del monastero per chiedere di entrarvi in vista di un autentico discernimento? Tale domanda obbliga a porci in ascolto del nostro cuore per scoprirvi chi e cosa vi abita: chi sono? chi voglio essere? cosa cerco realmente? Si può dare una sola riposta perché non è possibile essere e cercare contemporaneamente cose diverse. Questo ci costringe ad uscire dalle contraddizioni e dai compromessi, a porre a  fondamento della nostra identità l' "unum necessarium" rinunciando a fragili impalcature o strutture di facciata.

Un'ulteriore riflessione si impone: nessuno si fabbrica da sé: la nostra vita è sempre una risposta ad una chiamata. Per cui scopro me stesso in relazione all'altro e sprattutto a Dio da cui sono generato e assegnato alla vita. Elia ci insegna che il dialogo con Dio è fondamentale per evitare di cercare la nostra identità in direzioni narcisiste, di ricerca di noi stessi, di autorealizzazioni o di appagamenti di voglie transitorie. In tal senso possiamo leggere l'invito rivolto al profeta:  "Esci!" (v.11). Esci da te stesso per incontrare il Dio che passa imprevedibile nei modi e nei tempi, "lasciati dire" da lui! Abbi occhi vigilanti per saperlo individuare non negli "effetti speciali", ma nella carezza di una "brezza leggera".

Elia ritrova qui, nella notte e nella caverna in pieno deserto, la sua identità di credente e di profeta: la riscopre rinnovata, approfondita, perché maggiormente in sintonia con Dio. Ora può tornare sui suoi passi non più scoraggiato e arrabbiato con tutti compreso Dio, ma ritorna ritemprato perché addolcito dal fatto di non sentirsi più l'unico protagonista e l'ultimo responsabile ma semplice strumento in mano a Dio che è "lento all'ira e grande nella sua misericordia". Nell'amore di Dio Elia ritrova la sua identità di profeta della sua misericordia.

Il card. Jean Daniealu in un suo scritto riportava a tal proposito parole che possono illuminare questa nostra riflessione: "Una vita infelice è una vita che non serve a nulla, che si sente isolata, « vagante ed in balìa dei venti », dirà san Paolo, leggera di quella spaventosa leggerezza di ciò che non è trasportato dal peso dell'amore verso il suo posto, verso il posto assegnatogli da Dio. La felicità di una vita è invece l'aver trovato la propria sede, la sede in cui Dio la vuole, qualunque essa sia " (Giovanni Battista). Che questo possa avvenire per ciascuno di noi.

 

Oratio

 

Presi dai nostri affanni spesso andiamo a Dio con tristezza, scoraggiamento, preoccupazione. Ci sembra talvolta di aver perduto il filo conduttore della nostra vita che ci appare allora slegata e di conseguenza senza senso. Occorre ad ogni costo ritrovare la giusta direzione. E questa, ovvero la nostra identità di persone consacrate, va cercata nel costante ricordo di Dio presente nella nostra vita, essa diviene certezza capace di donare pace e calma ai nostri cuori affannati. Chiediamo questa grazia ancora con le parole di Isacco di Ninive: "Nei momenti in cui siamo soli, lontano dagli uomini e dagli affari, sii per noi, Signore nostro, il nostro guadagno, e in te rallegreremo la nostra tristezza. È confidando nella tua grazia che noi siamo usciti per dimorare nella solitudine: fa' che vediamo in modo manifesto,  Signore nostro, nella realtà, la forza che ha il ricordo di te. Riversa la tua pace nei nostri cuori e la tua calma nei nostri moti, perché la notte che sorpassa ogni tenebra sia per noi come il giorno. In quell'ora in cui siamo resi un deserto perché la notte ci rinchiude all'interno della sua tenebra e ci isola da tutti gli uomini, cresca, mio Signore, la nostra consolazione in te. (Disc X, 13-14).

 

 

 

 

Attilio Franco Fabris

Monastero di Sant'Andrea

Abbazia di Borzone

16041 Borzonasca - Ge

www.abbaziaborzone.it